di Stefano Bruno Galli
Almeno tre sono i dati
politici che emergono dal voto dell’altro ieri nel Consiglio regionale
lombardo per
l’approvazione del referendum autonomista. Anzitutto il
Governatore, Roberto Maroni, s’è confermato un vero leader: ha
tenuto compatta e coesa la sua maggioranza
attorno a sé in una partita davvero difficile. E l’ha vinta, facendo leva sul
“modello lombardo” di aggregazione del centrodestra. Un modello che a questo
punto aspira a trasformarsi in una formula politico-istituzionale efficace e di successo, nell'ambito della
quale la lista civica del Presidente ha svolto un ruolo non marginale (chi
scrive è stato colui che, un anno fa, ha innescato il percorso e poi ha fatto
il relatore in aula della proposta referendaria).
Per spuntarla ci volevano 54 voti. Ai 49 della maggioranza si sono aggiunti quelli – anche loro compatti e coesi – del Movimento 5 stelle. I grillini lombardi, vittima per tutta la giornata delle polemiche, degli strali e dei violenti attacchi dei consiglieri del Pd, non si sono persi d’animo. Hanno combattuto la loro battaglia per una procedura di fronte alla quale sono sempre stati sensibili, quella della democrazia diretta, nel nome di un significativo “lombardismo”, anteponendo cioè gli interessi dei lombardi alle rendite partitiche di posizione. Hanno assunto una posizione autonoma e indipendente rispetto alla minoranza, smarcandosi con coraggio e disinvoltura. E hanno dimostrato che la protesta non ha senso se non viene appoggiata su una proposta all'altezza della sfida.
Il terzo elemento
politico emerso dal voto referendario è l’isolamento del Pd, relegato in un angolo a
fare un’opposizione sterile, infruttuosa e addirittura controproducente. Certo il Pd a Roma governa. E nel
segno di un ferreo
centralismo cerca di riorganizzare – a colpi di maggioranza
e di rissa parlamentare – l’architettura della
repubblica, revocando i poteri periferici per ricollocarli al centro. Orrenda e inaccettabile riaffermazione dello Stato burocratico
e accentratore. In Consiglio regionale il Pd è dimidiato perché non riesce a
conciliare le ragioni di Roma con le giuste ambizioni di autonomia politica e amministrativa della Lombardia.
Quando a prevalere sono gli interessi romani su quelli del grande popolo
lombardo, il pericolo è in agguato. Si rischia l’autogol, cacciandosi in un
angolo dal quale è difficilissimo uscire.
E così è stato. Ridicoli sono allora
risultati i proclami di autonomia e di sensibilità territoriale di fronte all'annunciato –
e poi confermato – voto contrario al referendum. Così come sterili sono
state le polemiche sui costi dell’iniziativa. Sterili perché, quando si tratta
di ricorrere alle procedure della democrazia diretta, cioè di consultare il popolo, non v’è
costo che tenga. La democrazia non ha prezzo se si tratta di consolidarla con una procedura consensuale e partecipativa. E qui si tratta proprio di consolidarla, chiedendo al popolo lombardo se è
d’accordo a procedere risolutamente lungo la strada costituzionale dell’autonomia ingaggiando un braccio di ferro con lo Stato di Roma per ottenere un
congruo numero di nuove competenze legislative e amministrative. Il quesito referendario fa leva sull'istituto giuridico-costituzionale del regionalismo a geometria variabile, vale a
dire sull'articolo 116, comma 3, della Costituzione, che alle regioni a Statuto ordinario
virtuose riconosce l’opportunità di trattare nuove competenze con il governo di Roma sino ad
avvicinarsi a un grado di autonomia paragonabile a quello delle regioni a Statuto speciale.
La Lombardia ha già provato a percorrere questa strada, senza successo, nel
2007. Le trattative naufragarono perché cadde il governo di allora, ma anche perché
alle spalle delle trattative non c’era il più vasto consenso dell’opinione
pubblica lombarda. Per questa ragione, ricorrere alla consultazione referendaria è fondamentale: “con il consenso della gente si può fare
di “tutto”, ci ammoniva un grande Maestro, Gianfranco Miglio.
Il consenso è dunque il motore
di ogni cambiamento e aprire le trattative con il Governo per ottenere maggiori
competenze sulla base dell’esito di un referendum consultivo conferisce una
diversa fisionomia al negoziato e alle sue prospettive. Sarà poi la Corte a
valutare la qualità dell’autonomia raggiunta e imporrà al Parlamento le ratifiche costituzionali conseguenti.
La sfida, dal punto di vista giuridico-costituzionale, è quella di valorizzare il regionalismo differenziato, chiedendo allo Stato il riconoscimento della specialità su nuove basi. È del tutto evidente, infatti, che oggi, di fronte alla più grave crisi dell’ultimo secolo, le ragioni di natura economica e sociale sono addirittura più rilevanti e più forti, valgono di più rispetto alle ragioni etniche, storiche, linguistiche, che allora – all'indomani della fine della Seconda guerra mondiale – militarono a favore del riconoscimento della specialità per le cinque regioni autonome.
La sfida, dal punto di vista giuridico-costituzionale, è quella di valorizzare il regionalismo differenziato, chiedendo allo Stato il riconoscimento della specialità su nuove basi. È del tutto evidente, infatti, che oggi, di fronte alla più grave crisi dell’ultimo secolo, le ragioni di natura economica e sociale sono addirittura più rilevanti e più forti, valgono di più rispetto alle ragioni etniche, storiche, linguistiche, che allora – all'indomani della fine della Seconda guerra mondiale – militarono a favore del riconoscimento della specialità per le cinque regioni autonome.
Questo percorso dovrebbe
premiare la “specialità” della Lombardia, che è nella natura delle cose. Ce lo
ha detto la Cgia di Mestre qualche giorno fa che i
cittadini lombardi sono i più tartassati del Paese (con una cifra
devoluta annualmente all'erario nazionale di oltre 11mila euro) e che
la Regione ha un residuo fiscale di 54 miliardi di euro,
a tanto ammonta infatti il “lascito” allo Stato centrale. Non solo, ma la
Lombardia è regione leader a livello europeo, aderisce ai “Quattro
motori dell’Europa”, con la Baviera, il Baden Württenberg e la Catalogna, ed è
l’epicentro propulsivo della Macroregione alpina. Con le sue attività
economiche e produttive copre circa il 21% del Pil nazionale. E lo scorso anno
un’autorevole e accreditata agenzia internazionale di rating, Moody’s, ha riconosciuto un titolo di merito
creditizio alla Lombardia, superiore a quello dello Stato – ingordo e predatore
– di Roma. Appunto. Ecco perché la Lombardia si merita il riconoscimento della sua “specialità”.
Articolo tratto dal sito www.lintraprendente.it