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domenica 9 settembre 2018

SVEZIA | Alby, la piccola Bagdad dove anche la polizia ha paura a entrare. Il fallimento del "modello" immigrazionista svedese.


Sul Corriere della Sera di oggi un reportage su Stoccolma, ma in passato ne abbiamo già letti su Londra, Parigi e Bruxelles tanto per citare alcune grandi città del vecchio continente, che certifica ancora una volta il fallimento di diversi “modelli” di gestione del fenomeno dell’immigrazione e della seguente integrazione, ammesso che sia possibile, nelle varie comunità delle diverse “generazioni” dei “nuovi europei” ancora a cavallo con la vecchia patria di origine e culture tanto differenti tra loro.

Fallimento le cui ricadute negative quotidiane colpiscono sia le popolazioni “autoctone” sia quelle cosiddette “migranti”, il cui riconoscimento, purtroppo negato specialmente a sinistra, dovrebbe essere alla base di ogni seria riflessione sul tema da cui possa nascere una risposta nuova e coerente con la realtà odierna.
Alby, la piccola Bagdad svedese dove anche la polizia ha paura.Viaggio in una «no go zone» di Stoccolma, dominata da gang e spacciatori. Qui la socialdemocrazia ha fallito.
Era una bella Saab. «L’avevo comprata coi soldi che m’aveva lasciato mio padre». Una sera gliel’hanno incendiata proprio sotto casa, dietro il piazzale dell’Alby Centrum. «Ci sono stati degli scontri con la polizia». Dalla finestra, l’impiegata di banca Tove Friedriksson ha visto tutto: le proteste degli iracheni, le molotov, i lampeggianti blu, le cariche casco&manganello, gli arresti. «Non sono uscita di casa, perché ho avuto paura. Ma la mattina dopo, sì. Vado a fare la denuncia dei danni. E siccome all’assicurazione servono i dettagli, chiedo qualcosa degli arrestati». Niente nomi, dice la polizia. «E quelli dei loro avvocati?». Niente. «Ma sono stati gli arabi o gli africani?». È a quel punto che il poliziotto alza gli occhi: che razza di domanda, «l’etnia non possiamo comunicarla». Vietato chiedere: «Ho rischiato una denuncia per razzismo e xenofobia. Dichiarare che è stato un immigrato a bruciare l’auto, è un’informazione impropria. Va contro la legge».
Se domattina vi chiederete perché la Svezia alle urne ha castigato dopo un secolo i socialdemocratici della tolleranza totale, premiando la destra intollerante, Tove ha qualche risposta. Indovinate oggi per chi vota lei. Ad Alby fa sorridere l’altissima media nazionale d’accoglienza dei profughi, uno ogni cinque svedesi: in questo sobborgo alla penultima fermata della linea rossa, venti chilometri a ovest e migliaia d’anni luce dal centro di Stoccolma, gli svedesi-svedesi come Tove sono uno su dieci. L’11 per cento. Mosche bianche. Sperdute fra alveari marroni edificati negli anni delle guerre balcaniche, dei massacri africani, delle fughe afghane, delle agonie mediorientali. Diecimila abitanti, cinquemila appartamenti riservati ai rifugiati: Alby, Norsborg, Hallunda ormai li chiamano Little Bagdad, Little Mogadiscio, Little Sudan. La squadra di calcio del quartiere è il Konya, come la città dei dervisci, e ha la stessa divisa biancoverde del Konyaspor turco. Nella scuola elementare non si festeggia mai il Natale, per non discriminare la stragrande maggioranza musulmana. Nei fast food non si trova il bacon. E se negli anni 80 c’era un asilo no gender fiorito dalla pedagogia egualitaria e socialdemocratica, di quelli che proibiscono di fare distinzioni discriminatorie e politicamente scorrette fra maschietti e femminucce, ora in piscina si nuota separati per sesso e le mamme ci entrano velate. La disoccupazione è al 70 per cento, contro la media nazionale del sei. Un tempo, qui si veniva a fare il bagno sulle rive dell’Albysjon, a pedalare nei boschi, a vedere dove aveva la villa il signor Ericsson, quello dei telefonini.
Oggi, Alby è stata dichiarata una delle otto «no go zone» vulnerabili del Paese, gang e spaccio, dove la sera i pompieri non sempre vanno se li chiamano e anche i poliziotti stanno all’occhio: «L’auto di servizio non dobbiamo mai posteggiarla lontana — dice l’agente Roger Kampe, in servizio da sette anni —, perché te la trovi danneggiata. E l’ordine è di girare sempre in due o tre, mai da soli». In un garage, a marzo è stato scoperto un deposito d’esplosivo, «roba da professionisti». Sugli ascensori dei palazzoni, le scritte in arabo inneggiano a qualche guerra santa. Un ragazzino di 16 anni è stato accoltellato in pieno giorno, un mese fa, davanti al centro commerciale: «C’erano almeno trenta testimoni, nessuno ha visto nulla».
Ad Alby, governano da sempre le sinistre. Ma stavolta non si sa. I postfascisti di Svezia Democratica, annunciati vincitori di queste elezioni politiche, qui non mettono piede. Non si vede un manifesto di Jimmie Akesson, il Salvini che vuole rispedire a casa i migranti e sull’esistenza di posti così sta costruendo la sua fortuna politica. L’imam non ha voglia di parlare coi giornalisti, da quando l’hanno messo in mezzo con una telecamera nascosta (si vede un candidato locale della sinistra garantire tremila voti sicuri a un alleato di lista, «alla preghiera l’imam convincerà i musulmani a votare te, e tu in cambio gli costruirai la nuova moschea...»: tutta acqua al mulino di Jimmie lo spaventastranieri). Venerdì sera il sobborgo era mezzo deserto, tutti a guardare Jimmie Akesson nell’ultimo confronto elettorale in tv. E sentirlo parlare di posti come Alby. Parole pesanti: «Lo sapete perché quella gente non trova lavoro? Perché non s’adattano alla Svezia. E non sono svedesi». Urla, fischi, buuu. Nessuno ad Alby voterà mai Jimmie. «Ma qui siamo in Medio Oriente», dice Tove. E fuori di qui c’è una Little Svezia che non vuole diventare una grande Bagdad.

domenica 13 dicembre 2015

FERMATEVI! | No alla Moschea a Crema

Ad un mese dagli attacchi terroristici che hanno colpito Parigi faccio mio e rilancio questa immagine ed il contenuto del post pubblicato nei giorni successivi sulla pagina Facebook "No alla Moschea a Crema"

FERMATEVI‬! | dopo i tragici avvenimenti di ‪‎Parigi, cui non trovando le parole per esprimere il nostro sgomento abbiamo dedicato nel nostro piccolo un solo post con il tricolore francese, da più parti è emerso ancora una volta il problema della presenza sul territorio nazionale, e non solo, di moschee e centri islamici quali possibili luoghi di proselitismo del fanatismo religioso islamista.

A tal proposito il Governo francese ha annunciato un "giro di vite" prospettando la chiusura di quei luoghi che dovessero risultare fortemente sospetti.
In questo quadro d'insieme è tornata di prorompente attualità la questione del prossimo insediamento, secondo i programmi dell'amministrazione comunale, di un luogo di culto islamico in città.

Premesso che di argomenti per negare la costruzione di una moschea in città ve ne erano molti, tutti peraltro ben supportati e ancora validi oggi, anche prima dei tragici fatti che hanno colpito la capitale di ‪Francia, la nuova escalation terrorista conferma ancora una volta come gli Stati Europei non abbiano ancora al loro interno attuato tutti gli strumenti per impedire che moschee e centri islamici divengano focolai di estremismo.

Lungi da noi voler generalizzare e "puntare il dito" contro ogni cittadino che professa la fede islamica (sfidiamo comunque a trovare un solo NOSTRO post su questa pagina che affermi il contrario), ma i fatti di Parigi sono un macigno che pesa su ogni progetto di apertura di nuove moschee o luoghi simili.

Per tutti questi motivi, e nell'interesse anche dei fedeli dell'Islam che vivono in pace nelle nostra città, è un dovere per la Giunta ‪Bonaldi‬ fermare l'iter per la moschea.

venerdì 11 settembre 2015

MEMORIA | quell'undici settembre di Rabbia e Orgoglio

Nel giorno del 14° anniversario degli attentati dell'11 settembre 2001 a New York e Washington c'erano tanti modi per ricordare quei tragici avvenimenti.
Ho deciso di farlo citando le prime righe dell'articolo più famoso apparso sui giornali nelle settimane successive, "La Rabbia e l'Orgoglio" di Oriana Fallaci.
Uno straordinario scritto tremendamente attuale che dovremmo leggere e rileggere più spesso.

Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l’altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d’una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry. It’s good to be angry, it’s healthy. Siate arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l’ho vissuta io, quest’Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella...  
continua su http://www.oriana-fallaci.com/29-settembre-2001/articolo.html

sabato 7 febbraio 2015

#MOSCHEA | cosa fare dopo il #consiglioaperto? alcune idee (del tutto personali...)

E adesso??? Una domanda semplice che in molti si stanno ponendo, ed io per primo, dopo la seduta di venerdì scorso del consiglio comunale aperto incentrato sulla questione moschea (che qualcuno continua a preferire di chiamare musalla quando differenze tra le due sono solo per le dimensioni).

Un consiglio aperto il cui intento con il quale era stato proposto dal Comitato Cremasco No Moschea, vale a dire concedere la parola ai cremaschi per poter parlare senza filtri all'amministrazione di un progetto che crea, e sarebbe sciocco e superficiale negarlo, preoccupazioni e timori, alcuni ben fondati e altri magari sovrastimati, è scemato via senza che questo abbia potuto aver luogo.
Le numerose e concordi testimonianze e ricostruzioni mostrano, senza pochi dubbi, come la sinistra sia stata “bravissima” ad orientare l’andamento del consiglio per far apparire una realtà ben diversa da quella che si respira ogni giorno in città. Sinistra brava ed anche furba, una furbizia però resa possibile anche da una colpevole distrazione delle minoranze.

Non poteva, almeno un consigliere comunale di centrodestra presentarsi in comune, ben prima dell’apertura delle porte ai cittadini, e verificare che non vi fossero “portoghesi” entrati prima??? Si, no, forse. Ma tutto questo appartiene al passato, seppur molto recente, e perdersi dietro accuse e repliche non fa altro che distrarre dal vero problema, vale a dire la persistente pervicacia con la quale l’amministrazione vuole proseguire sulla strada intrapresa da oltre due anni.

L’esordio del discorso del Sindaco Bonaldi è stato da questo punto di vista esemplare nel negare ogni spazio di discussione e auspicabile ripensamento. Come ho twittato di recente “quando la politica indossa i paraocchi dell’ideologia finisce col fare scelte sbagliate, come il si alla moschea”, e quanto pronunciato in consiglio ne è la conferma.

Tutto questo però è IERI, ADESSO che fare?

Partirei da cosa ritengo sommessamente non si dovrebbe fare o proporre. Leggo che le minoranze vorrebbero un altro consiglio aperto, per fare cosa considerando l’esito e la gestione del precedente? Provare a fare quanto messo in pratica dalla sinistra inviando truppe “dromedarie” in luogo di quelle “cammellate” evocate da molti?

Da altre parti (Forza Italia qualche settimana fa) si evoca il discorso referendum. Argomento grazie al quale è facile ricevere l’applauso ma che tutti sanno (o fanno finta di non sapere) non essere possibile stante lo statuto comunale attuale in ottemperanza alle leggi dello stato.
Uno statuto che anche il sottoscritto ha contribuito ad aggiornare nella passata amministrazione per adeguarlo alle normative nazionali cambiate nei dieci anni succeduti alla prima formulazione.

Normative nazionali che non permettono di svolgere tali consultazioni. Qualcuno afferma che potevamo comunque modificare lo statuto per renderle possibili, vero! Peccato che una bocciatura da parte degli organi di controllo sarebbe intervenuta a fare “tabula rasa” prima ancora che lo stesso potesse entrare in vigore, e il sottoscritto di far perdere tempo, e soldi per avvocati, all'amministrazione non ne aveva l’intenzione.

Modificarlo adesso anche alla luce della nuova normativa regionale in tema di luoghi di culto come pare vogliano chiedere i consiglieri del M5S? È una opzione, che però vedo ben lontana dal poter essere messa in atto stante la palese ostilità ideologica che la sinistra ha già espresso nei confronti della legge lombarda.

Cosa fare allora? Premesso che sono solo semplici considerazioni maturate prendendo atto delle forze e convinzioni in campo, il lavoro maggiore ritengo debba essere svolto più all'interno del comune che fuori, senza nulla togliere a coloro che l’opposizione fuori dal palazzo l’hanno fatta e la stanno facendo con impegno e merito.

Come sapete il via libera alla moschea dovrà passare per la variante al PGT, necessaria per cambiare la destinazione dell’area, ed il successivo bando/ convenzione con gli assegnatari dello spazio, dato che si parla di un’area comunale.

Per questo l’attenzione dovrebbe incentrarsi sul verificare il contenuto di tutti i documenti che saranno redatti e la loro conformità alle procedure ed alle leggi, in particolare la nuova legge di Regione Lombardia che ho citato in precedenza. La sinistra farà finta di nulla avanzando una sorta di “obiezione di coscienza” dato che la ritiene incostituzionale? Tenersi pronti a presentare ricorsi al tribunale amministrativo non penso sia un’ipotesi da scartare a priori.

Inoltre, se dovesse passare la variante (dubbi in merito ne ho pochi..), l’attenzione dovrà essere incentrata sul bando e la convenzione, con un occhio di riguardo soprattutto alle clausole di recesso in capo all'amministrazione comunale per un domani provvedere a tornare in possesso dell’area, eliminando il diritto di superficie e, di fatto, provvedere alla chiusura della moschea.

Una convenzione in cui Crema si dovesse trovare con le “mani legate” sarebbe un danno enorme che la sinistra arrecherebbe alla città, oltre a quello di portare avanti la sua politica di integrazione raffazzonata come solo lei è in grado di fare…

Sono solo suggerimenti per i quali è necessario un lavoro primariamente in commissione territorio (che non tutti frequentano come dovrebbero) ed in consiglio alquanto oscuro e poco “mediatico”, ma di maggiore impatto verso l’amministrazione rispetto al titolino sul giornale...

Post Scriptum: che si faccia o meno la moschea/musalla/centro islamico il vero referendum si terrà tra due anni e qualche mese alle prossime elezioni comunali, ma questa è un’altra storia e merita qualche altro post ;-)

domenica 18 gennaio 2015

IDEE & RIFLESSIONI | Il buonismo che ci acceca

Carenze culturali e politiche sono retoriche supplenze di identità ambigue

di Piero Ostellino
Il miserevole spettacolo che l’Italia politica e giornalistica sta dando sulla strage di Parigi e il suo seguito è figlio allo stesso tempo — salvo minoritarie e lodevoli eccezioni — di carenza culturale e di stupidità politica. Entrambe sono la retorica supplenza della nostra identità ambigua e compromissoria. Perciò, in nome della convivenza con l’Islam, auspichiamo di fondare un nuovo Illuminismo, non sapendo palesemente che ce n’è già stato uno sul quale abbiamo fondato la nostra civilisation, mentre sono loro che non lo hanno ancora fatto e che dovrebbero farlo.
Ci si è lamentati che le forze dell’ordine francesi non fossero riuscite a catturare rapidamente i due lombrosiani criminali artefici della strage parigina. Ignoriamo, o fingiamo di ignorare, che ciò era dovuto al fatto che il cosiddetto estremismo islamico naviga nel mare delle collusioni e delle complicità con l’islamismo che chiamiamo ostinatamente moderato. Che moderato non è e che si è profondamente radicato nel continente con l’immigrazione. È stupefacente che a non capirlo sia proprio quella stessa sinistra che, da noi, aveva felicemente contribuito a isolare il terrorismo delle Brigate rosse prendendo realisticamente atto che esso navigava nel mare delle complicità antiliberali e anticapitalistiche generate dal «lessico familiare» comunista. L’ignoranza che, da noi, circonda il caso francese rivela l’incapacità culturale, non solo della sinistra, di capire che cosa è stata, in Occidente, l’uscita dal Medioevo, la separazione della politica dalla religione, la cancellazione del dominio della fede religiosa sulla politica e la nascita dello Stato moderno; incapacità di capire che si accompagna a quella di prendere atto, per converso, che l’Islamismo è ancora immerso nel Medioevo ed è soprattutto incapace di uscirne.
Le patetiche invocazioni al dialogo, alla reciproca comprensione che si elevano da ogni chiacchierata televisiva, da ogni articolo di giornale, sono figlie di un buonismo retorico, politicamente corretto, incapace di guardare alla «realtà effettuale» con onestà intellettuale. Non stiamo dando prova neppure approssimativa di essere gli eredi di Machiavelli, bensì, all’opposto, riveliamo di essere i velleitari nipotini di Brancaleone da Norcia, lo strampalato protagonista di una saga cinematografica. Il miserevole spettacolo che diamo è anche la conseguenza dell’insipienza culturale di una sinistra che — perduto il rapporto organico con l’Unione sovietica, spazzata via dalle «dure repliche della storia» — non sa, o non vuole, darsi una identità. La nostra insipienza politica è generata dall’incultura. Non abbiamo perso l’occasione, anche questa volta, di mostrare d’essere un Paese da Terzo Mondo al quale, come non bastasse, un Papa pauperista detta la linea fra l’ottuso entusiasmo di fedeli che mostrano di credere ben poco nel messaggio di Cristo e molto più di essere i sudditi di una gerarchia che assomiglia a una corporazione o a un partito. Avevo definito l’Islam, in un precedente articolo, una teocrazia, aggiungendo che qualsiasi tentativo, da parte nostra, di trovare con esso una qualche forma di conciliazione si sarebbe rivelato, a causa della contraddizione logica e storica, illusorio.
Che piaccia o no al buonismo, siamo diversi. È inutile nascondersi dietro il dito di un universalismo di facciata che non regge alla prova della logica e della storia. Siamo anche migliori, avendo noi conosciuto, e praticato da alcuni secoli — a differenza di loro che sono, e vogliono restare, una teocrazia — la separazione della religione dalla politica. Pur con tutti i nostri limiti, pratichiamo l’insegnamento dell’Illuminismo e siamo entrati da tempo nella Modernità, mentre loro ne sono ancora fuori e non danno neppure segno di volerci entrare. Viviamo in regimi che praticano la tolleranza nei confronti di chi non la pensa allo stesso nostro modo o professa una religione diversa dalla nostra; siamo società che, per dirla con Isaiah Berlin, professano e rispettano la «pluralità di valori». Chi non la pensa come noi, non è considerato e trattato come un nemico. Loro ci considerano «infedeli» rispetto alle loro convinzioni e alla loro prassi; un nemico da sterminare come hanno fatto nei confronti della redazione del settimanale satirico parigino il cui torto era di aver fatto dell’ironia sul loro credo. Per noi, gli islamici sono gente che la pensa in un modo diverso. Da figlio del Cristianesimo e del liberalismo mi chiedo come si possano uccidere uomini e donne in nome del proprio dio.
Il criminale che torna sui suoi passi per finire un agente ferito e a terra è una bestia, con tutto il rispetto per gli animali. Le nostre reciproche culture sono inconciliabili ed è persino ridicolo auspicare che ci si possa incontrare almeno a metà strada. Dovremo convivere, sapendo che ci vorrebbero colonizzare e dominare attraverso quel «cavallo di Troia» che è l’immigrazione e che noi stessi incoraggiamo. Lo ripeto. Non siamo noi che dobbiamo riscoprire le nostre radici. Sono loro che devono rinunciare alle loro. Sempre che vogliano convivere pacificamente. Cosa di cui dubito.
tratto da www.corriere.it del 10 gennaio 2015

Chi è Piero Ostellino (da wikipedia)

Laureato in Scienze politiche presso l'Università di Torino, si è specializzato in sistemi politici dei paesi comunisti. Ha fondato nel 1963 il Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino e, nel 1964, la rivista “Biblioteca della Libertà” che ha diretto fino al 1970. Del Centro Einaudi è ora presidente onorario. Ha diretto dal 1990 al 1995 l’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano ed è stato membro del comitato scientifico dell’Università della Carolina del Nord. È autore di numerosi saggi di carattere storico e politico.

Dal 1967 scrive sul Corriere della Sera, giornale del quale è stato corrispondente da Mosca dal 1973 al 1978 e da Pechino nel 1979 e 1980, inviato speciale, nonché direttore dal 1984 al 1987. Attualmente ne è editorialista e titolare della rubrica settimanale “Il dubbio”.

martedì 13 gennaio 2015

IDEE & RIFLESSIONI | Vogliono uccidere la nostra anima

Gli autori dell’attacco al «Charlie Hebdo» non sono pazzi criminali, li muove un’ideologia politica. Più l’Occidente si autocensura, più diventeranno audaci

di Ayaan Hirsi Ali
Dopo la carneficina di mercoledì, forse l’Occidente metterà finalmente da parte le tante scuse artificiose impiegate finora per negare ogni nesso tra violenza e Islam radicale.

Questo non è stato un attacco sferrato da uno squilibrato, da un lupo solitario. Non è stata un’aggressione per mano di delinquenti qualunque. Era stata programmata per fare più morti possibile, durante una riunione di redazione, con armi automatiche e un piano di fuga. Gli assassini volevano seminare il terrore, e ci sono riusciti. Ma di cosa ci sorprendiamo? Se c’è una lezione da imparare, è che tutto ciò che noi crediamo dell’Islam non ha alcun peso. Questo tipo di violenza, la jihad, rappresenta quello in cui credono gli islamisti. Il Corano è disseminato di appelli alla jihad violenta, ma non solo. In troppa parte dell’Islam, la jihad si è evoluta in un’ideologia moderna. La «bibbia» del jihadista del ventesimo secolo è «Il concetto coranico della guerra», scritto dal generale pakistano S.K. Malik.

Nella sua analisi l’anima umana - e non il campo di battaglia fisico - rappresenta il centro dove portare il conflitto. E il modo migliore di colpire l’anima è attraverso il terrore, «il punto in cui il mezzo e il fine si ricongiungono». Ogni volta che giustifichiamo la loro violenza in nome della religione, ci pieghiamo alle loro richieste. Nell'Islam, è un grave peccato rappresentare o denigrare il profeta Maometto. I musulmani sono liberi di crederci, ma perché devono imporlo ad altri? L’Islam, con i suoi 1.400 anni di storia e un miliardo e mezzo di fedeli, dovrebbe riuscire a tollerare qualche vignetta. L’Occidente deve costringere i musulmani, specie quelli della diaspora, a rispondere a questa domanda: che cosa è più offensivo per un credente, l’uccisione, la tortura, la schiavitù, la lotta armata e gli attacchi terroristici in nome di Maometto, o la produzione di disegni, film e libri che si fanno beffe degli estremisti e della loro visione di ciò che Maometto rappresenta?
Per rispondere a Malik, la nostra anima in Occidente crede nella libertà di coscienza e parola. Sono le libertà che formano l’anima della nostra civiltà. Ed è proprio in questo che gli islamisti ci hanno attaccato. Tutto dipende da come reagiremo. Se ci convinciamo di combattere contro un manipolo di pazzi criminali, non saremo in grado di fornire risposte. Dobbiamo riconoscere che gli islamisti di oggi sono motivati da un’ideologia politica, radicata nella dottrina fondante dell’Islam. Sarebbe un notevole cambiamento di rotta per l’Occidente, che troppo spesso ha reagito alla violenza jihadista con tentativi di conciliazione. Cerchiamo di blandire i capi di governo islamici che premono per costringerci a censurare stampa, università, libri di storia, programmi scolastici. Loro alzano la voce, e noi obbediamo. In cambio cosa otteniamo? I kalashnikov nel cuore di Parigi. Più ci sforziamo di attenuare, placare, conciliare, più ci autocensuriamo, più il nemico si fa audace ed esigente.

C’è una sola risposta a questo vergognoso attacco jihadista contro Charlie Hebdo : l’obbligo di media e leader occidentali, religiosi e laici, di proteggere i diritti elementari di libertà di espressione, che sia la satira o altro. L’Occidente non deve più inchinarsi, non deve più tacere. Dobbiamo inviare ai terroristi un messaggio univoco: la vostra violenza non riuscirà a distruggere la nostra anima.
tratto da www.corriere.it del 9 gennaio 2015

Chi è Ayaan Hirsi Ali (da wikipedia)

è una politica e scrittrice somala naturalizzata olandese, nota soprattutto per il suo impegno in favore dei diritti umani e in particolare dei diritti delle donne all'interno della tradizione Islamica.

Figlia del signore della guerra somalo Hirsi Magan Isse, ha vissuto in Somalia, Etiopia, Kenya e Arabia Saudita. A cinque anni fu sottoposta ad infibulazione. Nel gennaio 1992 il padre conosce in moschea un giovane somalo (residente in Canada e tornato in patria per procurarsi una donna da sposare) e in un'ora decide di dargli in moglie Ayaan che aveva 22 anni. La ragazza rifiuta, ma le nozze si combinano ugualmente. Il marito appartiene al clan Osman Moussa, uno tra i più in vista nella società somala. Dopo le nozze organizza il viaggio in aereo alla volta del Canada, per la giovane moglie. Giunta in Germania per uno scalo intermedio, Ayaan decide di scappare. Prende un treno per i Paesi Bassi e chiede asilo politico come rifugiata. Motivo: essere stata costretta ad un matrimonio combinato che l'ha privata della libertà. Per non essere rintracciata dalla famiglia, sceglie di non usare più il suo vero cognome, Magan, ed opta per Ali (il nome originario del nonno).

Ottiene lo status A, il migliore, che comprende il diritto di rimanere in Olanda per tutta la vita e di richiedere la cittadinanza dopo cinque anni. Ayaan si iscrive all'Università e consegue la laurea in Scienze politiche. Un giorno dell'estate del 2001 guardando il telegiornale apprende che in una scuola alcuni insegnanti gay sono stati molestati da allievi musulmani. Il servizio mostra anche un imam che li difende: secondo lui l'omosessualità è una malattia contagiosa in grado di infettare gli studenti. Di getto scrive una lettera e la indirizza ad uno dei quotidiani più letti in Olanda, NRC Handelsblad. Nella lettera sostiene che quell'atteggiamento non appartiene a un solo imam, ma è molto diffuso nel mondo islamico e spiega che l'islam è una religione che non accetta la libertà individuale, fino a giustificare i soprusi contro le donne e contro i diversi.

Quel gesto istintivo segna l'inizio del suo impegno politico. Nel 2002 diventa famosa nel paese attraverso alcune apparizioni televisive dove esprime con nettezza il suo pensiero critico sull'islam. I suoi interventi destano scalpore presso la comunità musulmana perché per la prima volta a criticare l'islam è una di loro e, per giunta, una donna. In ottobre di quell'anno cade il governo e il paese è chiamato alle elezioni anticipate. Neelie Kroes, importante esponente del partito liberale "Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia" (VVD), chiede a Hirsi Ali se vuole candidarsi nella sua lista. Ayaan accetta, viene collocata al numero 16 (in Olanda si vota su liste bloccate), che le dà la sicurezza di essere eletta. Decide che la sua missione sarà inserire il problema delle donne musulmane nell'agenda politica del suo Paese d'adozione.

A tutti quelli che glielo chiedevano, rivelava apertamente che al suo arrivo in Olanda si era firmata con un cognome diverso dal suo e non aveva detto tutta la verità sui motivi che l'avevano portata a lasciare il suo paese d'origine. La cosa però non crea scandalo e Hirsi Ali viene eletta il 22 gennaio 2003 al parlamento olandese. Nel 2004 scrive la sceneggiatura del film cortometraggio "Sottomissione" (Submission), in cui si denunciano gli abusi che subiscono le donne nel mondo islamico. Il 2 novembre dello stesso anno il regista del film Theo van Gogh viene assassinato. Da allora Hirsi Ali vive protetta da una scorta armata. In poco tempo diventa una persona scomoda. Per i suoi vicini di casa è una persona troppo ingombrante: notano che la sua abitazione è perennemente sorvegliata da una scorta armata. Si rivolgono al tribunale affinché dia ordine alla Hirsi Ali di cambiare domicilio. Nel 2006 la Corte d'appello di L'Aia, con una sentenza senza precedenti, dà ragione ai vicini di casa della scrittrice, intimandole di cambiare quartiere.

Capito il vento che tira, Ayaan Hirsi Ali si dimette da deputata e lascia volontariamente l'Olanda, per trasferirsi negli Stati Uniti, a Washington. Ritorna nei Paesi Bassi, anche se solo per brevi periodi, ma nell'ottobre del 2007 il governo olandese decide che le scorte armate debbano essere riservate ai cittadini residenti nel territorio nazionale, facendole capire che se rientra in patria lo fa a suo rischio e pericolo. Immediatamente la vicina Danimarca le ha offerto protezione, sulla base di un programma volto a sostenere gli scrittori minacciati di morte dai terroristi islamici. La scrittrice ha ringraziato ma ha affermato di voler rimanere negli Stati Uniti. Oggi lavora nell'American Enterprise Institute, un importante centro studi.

giovedì 27 novembre 2014

#NOMOSCHEA | io (e la Lega) la pensiamo così...

Nelle ultime settimane in molti, tramite i social e in città, mi hanno chiesto perché ultimamente la Lega non faccia molto sentire la sua opinione sulla questione moschea...
Per ovviare riporto una breve dichiarazione, dal contenuto sempre attuale, che ho rilasciato tempo fa ad un giornalista locale.
Spero sia chiara...
“Innanzitutto mi è doveroso precisare come la posizione, che abbiamo preso e sostenuto negli ultimi due anni come Lega Nord, non nasce da un semplicistico pregiudizio mirante a porre dinieghi, sempre e comunque, laddove le comunità islamiche richiedono di poter costruire moschee, musalle e centri islamici, bensì pone il suo fondamento nella necessità che a monte di tutto vi sia un pieno riconoscimento ed una formalizzazione dei rapporti tra islam e stato, attraverso concordati e leggi, come avvenuto con tante altre religioni presenti in Italia.
Inoltre, stante i numerosi fatti di cronaca degli ultimi decenni, per non citare quelli emersi nelle ultime settimane, è parere della Lega negare, in assenza di una legge nazionale che ne regolamenti vari aspetti, la possibilità che si costruiscano moschee e quant'altro. Aspetti tutti peraltro contenuti in progetti di legge che il movimento ha depositato da tempo sia alla Camera che al Senato.
Chiedere che l’islam instauri rapporti ufficiali con l’Italia e che quest’ultima si doti di norme a tutela dei propri cittadini, ivi compresi coloro che professano il credo musulmano, è una richiesta di buon senso che dovrebbe partire proprio dalle varie comunità islamiche presenti sul territorio.

Avere leggi e norme che impediscano ad Imam improvvisati di predicare l’odio, come di recente emerso da indagini di polizia in Veneto, deve essere un interesse primario per tutti quei musulmani che rigettano logiche di scontro e prevaricazione.
Spesso capita di leggere, ed è avvenuto anche a Crema, che negare una moschea equivale a violare la costituzione negli articoli che sanciscono la libertà di culto. Rigetto totalmente tale impostazione che mira solo a far passare i contrari come siano noi leghisti, e non solo, come degli “usurpatori” dei diritti altrui. Nessuno vieta ad un cittadino che si professa musulmano di manifestare il proprio credo; quello che chiediamo sono regole e leggi certe che tutelino in primo luogo, come ho già detto, gli stessi musulmani dal proselitismo estremista che tenta, ed in molti casi vi è riuscito, di usare moschee e centri islamici come luoghi di indottrinamento all'odio.”

sabato 6 settembre 2014

#NOMOSCHEA | la mia adesione al "Comitato Cremasco No Moschea"

Sulla pagina Facebook "No alla Moschea a Crema" è stato pubblicato da circa un'ora un post molto interessante che lancia la proposta di costituire un "Comitato Cremasco No Moschea".

Eccone uno stralcio:

...il procedere spedito da parte della Giunta Bonaldi verso la concessione dei permessi propedeutici all'insediamento di una moschea / musalla / centro islamico ha fatto maturate in noi la convinzione che l’ambito sia pur importante ma ristretto, del web non sia più sufficiente a portare avanti la battaglia contro i propositi di chi oggi amministra la nostra amata Città.
Per questo motivo lanciamo pubblicamente con questo post la proposta di costituzione del “COMITATO CREMASCO NO MOSCHEA”, luogo ideale di discussione e azione, nel quale far convergere tutti coloro che in questi anni hanno pubblicamente manifestato la loro contrarietà al “progetto moschea”.
Un COMITATO aperto a tutti, senza preclusioni, in particolare a tutti quei cittadini che hanno sottoscritto la petizione popolare contraria alla moschea portata avanti dalla Lega Nord di Crema, quella degli imprenditori della zona PIP di Santa Maria, i partiti di opposizione dentro e fuori l’aula del Consiglio Comunale, le associazioni ed anche coloro che in cuor loro la pensano come noi, ma non hanno ancora avuto il coraggio di esprimere il proprio pensiero, magari timorosi di essere additati da soliti benpensanti di razzismo e quant'altro.
Di fronte ad un invito del genere, in piena coerenza con la disponibilità a lavorare con tutti coloro che non vogliono una moschea a Crema, manifestata nella mia lettera aperta a Simone Beretta della scorsa settimana, non posso che esprimere pubblicamente la mia piena adesione a questo costituendo comitato.

Ho già provveduto a inviare un messaggio privato ai gestori della pagina per offrire loro collaborazione e l'aiuto che riterranno necessario.
Invito tutti coloro che condividono questa battaglia a fare altrettanto.

Come scritto in chiusura del post sulla pagina da oggi #NoMoscheaCrema non sarà solo un hashtag.

sabato 30 agosto 2014

#NOMOSCHEA | lettera aperta a Simone Beretta

Caro Simone,

stamane ho letto con piacere su diversi organi di stampa (nella foto la prima pagina de La Provincia) la proposta, che lanci a nome di Forza Italia, di una petizione contro l'ipotesi di insediamento di una moschea/musalla  nella nostra città.
Una raccolta firme per la quale chiedi il sostegno anche della Lega Nord e di cui ti ringrazio.

In questi ultimi due anni (le prime avvisaglie del possibile insediamento di una moschea/musalla/centro islamico risalgono all'ottobre 2012 quanto l'argomento venne discusso in una commissione territorio n.d.r.) la Lega Nord, guidata dal Segretario Cittadino Dino Losa, è subito intervenuta per esprimere la propria ferma e decisa contrarietà ad un'ipotesi del genere.

Nei mesi successivi diverse iniziative sono state messe in campo per contrastare le intenzioni più volte ribadite, in consiglio comunale e sugli organi di informazione, da parte dell'amministrazione comunale.
Con piacere ricordo i numerosi comunicati stampa, i manifesti affissi in città, il convegno con ospite l'On. Magdi Cristiano Allam, il presidio in Piazza Benvenuti a Ombriano e non ultima la "petizione popolare" per la quale abbiamo raccolto oltre 800 firme; una petizione cui il sindaco rispose "picche" manifestando l'intenzione di proseguire nei suoi intenti...

Tutto quanto ho sopra citato: comunicati stampa, manifesti, resoconto del convegno, petizione e risposta del sindaco si possono facilmente trovare cliccando sulla parola chiave "moschea" nell'elenco delle etichette a fianco di questo post.

Come avrai letto una petizione è già stata presentata, corredata da centinaia di firme, e la risposta ottenuta fortemente negativa.
Per questo motivo in occasione di una assemblea dei nostri militanti, svoltasi lo scorso luglio, abbiamo deciso di mettere sul tavolo, anche con tutte le altre forze politiche e sociali contrarie alla moschea, una nuova proposta per far sentire la voce dei cittadini in maniera ancora più forte rispetto ad una semplice petizione.

In breve un "referendum autogestito" con il quale chiedere a tutti i cittadini cremaschi di votare SI o NO all'insediamento del centro islamico; il tutto sul modello della campagna lanciata con grande successo in quel di Cantù dall'On. Nicola Molteni.

Parliamo di "referendum autogestito" in quanto come ben sai lo statuto comunale, la normativa nazionale e quella regionale non prevedono la possibilità di indire referendum in materia.
Lacune che un progetto di legge in parlamento, già depositato dai gruppi parlamentari della Lega, e delle modifiche alle leggi urbanistiche regionali annunciate dal Segretario Federale Salvini mirano a sanare.

Nel frattempo questa potrebbe essere una strada da percorrere insieme anche a voi come si evince dalle dichiarazioni rilasciate
dall'amico Dino Losa al "Piccolo del Cremasco" e pubblicate sul numero di inizio agosto. 

Da parte mia, quale semplice cittadino cremasco che ha nel cuore il bene della città, non posso che manifestarti la mia piena disponibilità ad operare insieme a te, e ad altri, affinché non si realizzi quanto prospettato dalla maggioranza di sinistra che oggi governa Crema.

Le cronache quotidiane di queste ultime settimane, otre ad un normale buonsenso, consigliano a tutti noi la massima prudenza e fermezza di fronte a richieste come quelle manifestate dalla comunità islamica.

Nonostante questo la sinistra appare sorda a tali richiami e ancora una volta prevale in essa una spinta "ideologica" deleteria che in molte occasioni nel passato ha portato a prendere decisioni rivelatesi sbagliate col passare del tempo.
Come già scritto io ci sono, quanto alla Lega Nord la risposta è giusto che arrivi da coloro che oggi ricoprono cariche dirigenziali che mi auguro affrontino quanto prima la questione.

Con stima e cordialità,

Matteo Soccini

lunedì 11 agosto 2014

#NOMOSCHEA | dai Cristiani di Mosul un monito per tutti noi.

In questi giorni le notizie sull'avanzata degli estremisti islamici dell'ISIS nel nord dell’Iraq, e la conseguente fuga delle comunità cristiane dalle loro case e chiese per sfuggire alla morte, compaiono sempre più spesso nelle aperture dei notiziari televisivi come sulle prime pagine dei giornali.

Ieri anche il Corriere ha dedicato il titolo principale alla tragedia che si sta consumando nelle antiche terre che furono di Babilonia, in particolare, oltre ai consueti articoli cronaca e opinioni, è apparso il primo di una serie di servizi a firma dell’inviato Lorenzo Cremonesi, dedicato alla fuga della comunità cristiana di Mosul.

Di tutto l’articolo alcune frasi pronunciate dall’arcivescovo caldeo di Mosul, Amel Nona, mi hanno particolarmente colpito che ho deciso di riportarle:
«Le nostre sofferenze di oggi sono il preludio di quelle che subirete anche voi europei e cristiani occidentali nel prossimo futuro», dice il 47enne Amel Nona, l’arcivescovo caldeo di Mosul fuggito ad Erbil.
«Ho perso la mia diocesi. Il luogo fisico del mio apostolato è stato occupato dai radicali islamici che ci vogliono convertiti o morti. Ma la mia comunità è ancora viva». E’ ben contento di incontrare la stampa occidentale.
«Per favore, cercate di capirci - esclama -. I vostri principi liberali e democratici qui non valgono nulla. Occorre che ripensiate alla nostra realtà in Medio Oriente perché state accogliendo nei vostri Paesi un numero sempre crescente di musulmani. Anche voi siete a rischio. Dovete prendere decisioni forti e coraggiose, a costo di contraddire i vostri principi. Voi pensate che gli uomini sono tutti uguali - continua l’arcivescovo Amel Nona - Ma non è vero. L’Islam non dice che gli uomini sono tutti uguali. I vostri valori non sono i loro valori. Se non lo capite in tempo, diventerete vittime del nemico che avete accolto in casa vostra».
Parole semplici e sincere, ma nel contempo dure e sofferenti. Un monito vivo da non lasciare cadere nel vuoto come troppo spesso è accaduto in questi anni. 
Un’ulteriore ragione, da aggiungere alle tante già messe sul tavolo, per dire un forte NO all’ipotesi che anche a Crema si possa insediare una moschea (o musalla come la chiama qualcuno).

I brani riportati sono dal reportage I cristiani stremati di Erbil di Lorenzo Cremonesi, pubblicato sul Corriere della Sera di domenica 10 agosto 2014.

http://www.corriere.it/esteri/14_agosto_10/nel-campo-cristiani-stremati-990dca94-2058-11e4-b059-d16041d23e13.shtml

mercoledì 16 aprile 2014

#MUSULMANI, #ISLAM e #MOSCHEE.

Riprendo un post che ho pubblicato sul profilo e la pagina ufficiali in Facebook della Sezione di Crema della Lega Nord.
Da alcune ore, sui profili di doversi esponenti locali del PD (e non solo), sono comparsi dei post che riprendono la risposta data da Marine Le Pen alla domanda se ritenga un pericolo per la Francia la presenza di persone che professano la fede islamica.
Ecco la risposta di Marine Le Pen: "Ci mancherebbe, io divido il Paese tra buoni e cattivi cittadini, ognuno ha il diritto di professare la sua religione e deve poterlo fare liberamente. Io sono contro il fondamentalismo politico-religioso, cioè quando la religione ha anche scopi politici".

La riprendiamo anche noi per un semplice motivo, LA CONDIVIDIAMO AL 100%.

In nessuna presa di posizione ufficiale la Lega Nord Crema - sezione cittadina ha mai messo in dubbio la possibilità per ciascuno di credere in qualsivoglia credo religioso e neppure di manifestarlo liberamente e PACIFICAMENTE, secondo i dettami della Costituzione.

Fin dall'inizio della campagna contro la decisione della Giunta Bonaldi di aprire alla possibilità che nella nostra città si possa aprire un centro islamico, moschea o musalla la contrarietà della Lega Nord Crema si è basata, e si basa, sul fatto che per edificare tali centri di culto siano necessarie due condizioni inprescindibili: un CONCORDATO tra lo STATO ITALIANO e l'ISLAM ed una LEGGE che fissi le regole cui tali strutture devono sottostare per una pacifica convivenza con la nostra comunità e soprattutto per EVITARE INFILTRAZIONI DI FONDAMENTALISTI POLITICO-RELIGIOSI, come li definisce la Le Pen.

Mentre su un eventuale concordato costatiamo la sua totale assenza per una manifesta ed oggettiva difficoltà ad identificare un soggetto legittimato a rappresentare i fedeli di credo islamico (siano essi sunniti o sciiti), sulla legge che regoli la costruzione di moschee ricordiamo, soprattutto agli amici del PD, che la Lega Nord ha da tempo depositato in parlamento un disegno di legge sul tema, questo per dimostrare ancora una volta come le prese di posizione del movimento non abbiamo nulla di "ideologico".

Comprendiamo come, in assenza di argomenti, il PD prenda stralci di interviste ad un esponente alleato del nostro movimento alle prossime elezioni europee, per creare maldestri confronti con la Lega ed il suo segretario federale Matteo Salvini, il tutto per sostenere la loro pretesa, questa si totalmente ideologica, di favorire la costruzione di una moschea a Crema.

giovedì 12 settembre 2013

BENEDETTO XVI | discorso di Ratisbona

Sono passati sette anni da quando Papa Benedetto XVI pronunciava questo discorso a Ratisbona, rileggerlo con sempre maggiore attenzione è un esercizio che consiglio vivamente.

Buona lettura,
Matteo

INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA SCIENZA
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Aula Magna dell’Università di Ratisbona
Martedì, 12 settembre 2006
Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.
  
Eminenze, Magnificenze, Eccellenze,
Illustri Signori, gentili Signore!


È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.

Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue.[1] Fu poi presumibilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano.[2] Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre "Leggi" o tre "ordini di vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano.  Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.

Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È probabilmente una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava".[3] L'imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione, „σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…"[4]

L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio.[5] L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza.[6] In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.[7]
A questo puntosi apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo "Io sono", il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso.[8] Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento, una nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo.[9] Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio.

Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo „λογικη λατρεία“ – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).[10]

Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente  purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra.[11]

La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall'esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà.

La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento[12] e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.

Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.

Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.

 Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.

Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.

Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno".[13] L'occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'università.
  


[1] Dei complessivamente 26 colloqui (διάλεξις– Khoury traduce: controversia) del dialogo („Entretien“), Th. Khoury ha pubblicato la 7ma „controversia“ con delle note e un'ampia introduzione sull'origine del testo, sulla tradizione manoscritta e sulla struttura del dialogo, insieme con brevi riassunti delle „controversie“ non edite; al testo greco è unita una traduzione francese: Manuel II Paléologue, Entretiens avec un Musulman. 7e Controverse. Sources chrétiennes n. 115, Parigi 1966. Nel frattempo, Karl Förstel ha pubblicato nel Corpus Islamico-Christianum (Series Graeca. Redazione A. Th. Khoury – R. Glei) un'edizione commentata greco-tedesca del testo: Manuel II. Palaiologus, Dialoge mit einem Muslim, 3 volumi, Würzburg – Altenberge 1993 – 1996. Già nel 1966, E. Trapp aveva pubblicato il testo greco con una introduzione come vol. II dei „Wiener byzantinische Studien“. Citerò in seguito secondo Khoury.
[2] Sull'origine e sulla redazione del dialogo cfr Khoury pp. 22-29; ampi commenti a questo riguardo anche nelle edizioni di Förstel e Trapp. 
[3] Controversia VII 2c: Khoury, pp. 142-143; Förstel, vol. I, VII. Dialog 1.5, pp. 240-241. Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione  della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell'imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d'accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica. 
[4] Controversia VII 3b – c: Khoury, pp. 144-145; Förstel Bd. I, VII. Dialog 1.6  pp. 240-243.
[5] Solamente per questa affermazione ho citato il dialogo tra Manuele e il suo interlocutore persiano. È in quest'affermazione che emerge il tema delle mie successive riflessioni.  
[6]Cfr Khoury, op. cit.,  p. 144, nota 1.
[7]R. Arnaldez, Grammaire et théologie chez Ibn Hazm de Cordoue. Parigi 1956 p. 13; cfr Khoury p. 144. Il fatto che nella teologia del tardo Medioevo esistano posizioni paragonabili apparirà nell'ulteriore sviluppo del mio discorso.
[8] Per l'interpretazione ampiamente discussa dell'episodio del roveto ardente vorrei rimandare al mio libro "Einführung in das Christentum" (Monaco 1968), pp. 84-102. Penso che le mie affermazioni in quel libro, nonostante l'ulteriore sviluppo della discussione, restino tuttora valide.
[9]Cfr. A. Schenker, L’Écriture sainte subsiste en plusieurs formes canoniques simultanées, in: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Città del Vaticano 2001, p. 178-186.
[10] Su questo argomento mi sono espresso più dettagliatamente nel mio libro "Der Geist der Liturgie. Eine Einführung", Friburgo 2000, pp. 38-42.
[11] Della vasta letteratura sul tema della deellenizzazione vorrei menzionare innanzitutto: A Grillmeier, Hellenisierung – Judaisierung des Christentums als Deuteprinzipien der Geschichte des kirchlichen Dogmas, in: Id., Mit ihm und in ihm. Christologische Forschungen und Perspektiven. Freiburg 1975 pp. 423-488.
[12] Nuovamente pubblicata e commentata da Heino Sonnemanns: Joseph Ratzinger – Benedikt XVI., Der Gott des Glaubens und der Gott der Philosophen. Ein Beitrag zum Problem der theologia naturalis. Johannes-Verlag Leutesdorf, 2. ergänzte Auflage 2005.
[13] 90 c-d. Per questo testo cfr anche R. Guardini, Der Tod des Sokrates. Mainz-Paderborn 19875, pp. 218-221.