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martedì 10 agosto 2021

MEMORIA | 20 ANNI SENZA GIANFRANCO


Post di introduzione alla giornata dedicata al Professore da Terre di Lombardia
Era il 10 di agosto del 2001, era un venerdì d'estate, uno di quei giorni nei quali il pensiero correva al fine settimana incombente ed al ferragosto cui mancavano pochi giorni. Era un giorno dal quale sono trascorsi ormai vent'anni.

Venti anni senza Gianfranco Miglio.
Venti lunghi anni nei quali le sue parole, i suoi scritti, il suo pensiero non hanno mai lasciato le menti ed i cuori di chi lo ha conosciuto, chi l'ha ascoltato, chi l'ha letto.
Venti anni dopo Terre di Lombardia lo ricorderà per tutta la giornata proponendovi articoli vecchi e nuovi, citazioni, e ricordi.

Il nostro modo per RICORDARTI!
Il nostro modo per RINGRAZIARTI!
Il nostro modo per DIRTI, CI MANCHI!

venerdì 19 luglio 2019

POLITICA | L’autonomia “secondo il PD” non è vera autonomia.


Col seguente articolo inizia la mia collaborazione con "La Voce del Nord", buona lettura.

Sul sito www.huffingtonpost.it  è apparso in articolo dal titolo molto chiaro “L’autonomia secondo il PD”, un testo che in poche righe esprime il pensiero del partito oggi di Zingaretti e ieri di Renzi (cui si deve la riforma costituzionale, poi bocciata dal referendum, che restringeva di molto le autonomie n.d.r.) su un tema molto sentito in particolare da lombardi e veneti.

Cosa si evince dallo scritto? Semplicemente che l’autonomia secondo il PD non è la vera autonomia chiesta dai 5.000.000 di elettori che hanno votato a favore dei referendum del 22 ottobre 2017. In particolare gli estensori del testo già dalle prime righe vanno già al nocciolo della questione affermando che: “Le suggestioni leghiste di istituire nuove Regioni a statuto speciale o di trattenere sui territori i cosiddetti residui fiscali hanno avvelenato il confronto di questi mesi, rendendo impossibile qualsiasi concreto passo in avanti.”

In altre parole, la cassa non si tocca e deve gestirla sempre Roma, come è esplicitato nel passaggio che ribadisce come: “Per quanto riguarda l’attribuzione di risorse, riteniamo sia da escludere decisamente qualsiasi ipotesi fondata sul criterio della spesa media procapite – che finirebbe per accentuare i divari territoriali già esistenti – mentre riteniamo necessario individuare, oltre al criterio della “spesa storica”, meccanismi che consentano a tutte le regioni di beneficiare, secondo un principio di solidarietà, di una parte dei vantaggi (anche di carattere finanziario) del recupero di efficienza connessi all’autonomia.”

Un modo come un altro per dire al Nord “taci e paga!” e se risparmi denaro mantenendo buono i livelli dei servizi ai tuoi cittadini quei risparmi dovranno finire a chi non è capace nemmeno di svuotare i cassonetti della propria “monnezza” (ogni riferimento alle perenni crisi dei rifiuti di Roma, Napoli e Palermo è assolutamente voluto…).

Per il resto il testo prosegue con le solite formule tanto care ad una certa sinistra che di evolversi verso modelli di “progressismo” come quelli catalano e scozzese non ne vuole sentire, basta leggere le prime righe dove si afferma che: “Proponiamo un modello di autonomia giusta, che rispetti i principi di solidarietà su cui si fonda la Repubblica, “una e indivisibile”, e che miri al miglioramento e all’efficienza dei servizi nell’intero Paese.”

Delle ataviche inefficienze, degli sprechi, degli sperperi, delle clientele, dell’assistenzialismo, eccetera, eccetera, che attanagliano le regioni meridionali, nonché delle possibili soluzioni di cui necessitano veramente i cittadini onesti del sud nessuna traccia. Peccato, ennesima occasione sprecata.

mercoledì 6 febbraio 2019

Carlo Cattaneo | il mio ricordo nel 150° anniversario dalla scomparsa di un grande di Lombardia.


CARLO CATTANEO, storico, economista e uomo politico, (Milano, 15 giugno 1801 – Castagnola, Lugano, 6 febbraio 1869).

Partecipò alle Cinque giornate di Milano; repubblicano e federalista, dovette però cedere il campo ai moderati filo-piemontesi e nel 1848 si ritirò a Parigi e quindi in Svizzera. Eletto nel 1860 deputato, non entrò mai alla Camera per non prestare il giuramento monarchico. Fu consigliere di G. Garibaldi, sperando di affermare il principio federale. Prevalso il partito dell’annessione, ritornò in Svizzera. Nel 1867 accettò di nuovo la candidatura a deputato, sempre tenendosi lontano dai lavori parlamentari. C. diede al positivismo italiano un carattere prettamente sociale. L’attenzione, nei suoi scritti, al legame tra Europa e moto italiano e al significato politico delle vicende del ‘48, rende la sua opera un capitolo molto importante della storiografia sul Risorgimento.

VITA


Alunno di G. D. Romagnosi, laureatosi in diritto a Pavia nel 1824, si dette all'attività pubblicistica; assiduo collaboratore degli Annali universali di statistica (dal 1833 al 1838), si occupò di ferrovie, bonifiche, dazi, commerci, agricoltura, finanze, opere pubbliche, geografia, letteratura, linguistica, storia e filosofia. Nel 1839 iniziò quel “repertorio mensile di studî applicati alla cultura e prosperità sociale”, cui altri diede il nome di Politecnico e che durò fino al 1844. In quest’anno pubblicò le Notizie naturali e civili su la Lombardia. Estraneo alle sette e alle congiure, venne in sospetto all'Austria soprattutto per la sua attività di studioso; nel gennaio 1848, infatti, fu proposto per la deportazione, sospesa per ordine del viceré. Attraverso la ricerca scientifica il C. proponeva un vasto programma di riforme politiche, inteso ad assicurare gradualmente al Lombardo-Veneto l’indipendenza nell'ambito di una federazione di popoli soggetti all'Austria, primo passo verso una federazione indipendente del popolo italiano (programma allargatosi, nel sett. 1848, a quello degli “Stati Uniti d’Europa”). Durante le Cinque giornate di Milano fu a capo del Consiglio di guerra, iniziando così la fase della sua politica attiva; fu parentesi assai breve: repubblicano e federalista, dovette cedere il campo ai moderati filo-piemontesi e nell'agosto si ritirò a Parigi (ove, sempre nel 1848, pubblicò L’insurrection de Milan, tradotta in italiano e ampliata l’anno successivo), poi in Svizzera, a Castagnola, ove restò fino al 1859, insegnando filosofia al liceo cantonale di Lugano. Ritornato a Milano il 25 ag. 1859, fece risorgere il Politecnico; eletto nel 1860 deputato, non entrò mai alla Camera per non prestare il giuramento monarchico. Dal settembre fu a Napoli consigliere di Garibaldi, sperando di affermare il principio federale. Prevalso il partito dell’annessione, ritornò a Castagnola e nel 1861 e nel 1865 rifiutò la candidatura per l’elezione a deputato che nel 1867 invece accettò pur non prendendo parte ai lavori parlamentari per non prestare giuramento.

PENSIERO E OPERE

Scolaro e continuatore di G. D. Romagnosi, il C. iniziò il positivismo italiano, con un carattere prettamente sociale, rifacendosi soprattutto a C.-H. de Saint-Simon. Psicologo più che filosofo, nella Psicologia delle menti associate (1859-66), rimasta allo stato di frammenti, cercò di realizzare un’interpretazione sociale dello sviluppo psicologico dell’individuo. Nelle scienze penali precorse i moderni concetti di responsabilità. Nella linguistica, le sue osservazioni sul fenomeno del “sostrato” furono riprese e sviluppate da G. I. Ascoli; notevoli, inoltre, le critiche mosse alle teorie delle migrazioni dei “popoli” indoeuropei, formulate dalla prima linguistica romantica (critiche confermate dall'ulteriore sviluppo della linguistica indoeuropea). L’aver sottolineato il legame tra Europa e moto italiano, l’aver affrontato vigorosamente, sia pure in forma ovviamente polemica nei confronti dell’incerta e ambigua politica sabauda, il significato politico delle vicende del ’48, fanno dell’opera di C. un momento molto importante della storiografia sul Risorgimento. D’altra parte, il suo federalismo, imperniato sul tema dell’autogoverno, garanzia e fonte di dignità, di civiltà, di libertà concreta, “filo ideale” per comprendere la storia d’Italia (La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, 1858), continuò a esercitare un notevole influsso nelle discussioni postunitarie (e oltre) sul decentramento e le autonomie locali.

IL PENSIERO FEDERALISTA

Cattaneo viene ricordato per le sue idee federaliste impostate su un forte pensiero liberale e laico: dopo il 1860 acquisterà prospettive ideali vicine al nascente movimento operaio-socialista. All'alba dell’Unificazione italiana, Cattaneo era fautore di un sistema politico basato su una confederazione di stati italiani sullo stile della Svizzera; avendo stretto amicizia di vecchia data con politici ticinesi come Stefano Franscini, aveva ammirato nei suoi viaggi l’organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputava proprio a questa forma di governo.

Cattaneo è più pragmatico del romantico Giuseppe Mazzini, è un figlio dell’illuminismo, più legato a Pietro Verri che a Rousseau, e in lui è forte la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta opera di rinnovamento della società. Pur essendogli state dedicate numerose logge massoniche e un monumento realizzato a Milano dal massone Ettore Ferrari, una sua lettera a Gian Luigi Bozzoni del 7 agosto 1867, consente di escludere la sua appartenenza alla massoneria, per sua esplicita dichiarazione, sovente in quel periodo tenuta segreta e negata.

Per Cattaneo scienza e giustizia devono guidare il progresso della società, tramite esse l’uomo ha compreso l’assoluto valore della libertà di pensiero; il progresso umano non deve essere individuale ma collettivo, attraverso un continuo confronto con gli altri.
La partecipazione alla vita della società è un fattore fondamentale nella formazione dell’individuo: il progresso può avvenire solo attraverso il confronto collettivo. Il progresso non deve avvenire per forza, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli uomini che scandiscono le tappe del progresso.

Cattaneo nega l’idea di contratto sociale, gli uomini si sono associati per istinto: “la società è un fatto naturale, primitivo, necessario, permanente, universale…”; è sempre esistito un “federalismo delle intelligenze umane”: è sorto perché è un elemento necessario delle menti individuali.
Pur riconoscendo il valore della singola intelligenza, afferma però, che più scambio e confronto ci sono, più la singola intelligenza diventa tollerante; in questo modo anche la società sarà più tollerante: i sistemi cognitivi dell’individuo devono essere sempre aperti, bisogna essere sempre pronti ad analizzare nuove verità.

Così come le menti si devono federare, lo stesso devono fare gli stati europei che hanno interessi di fondo comuni; attraverso il federalismo i popoli possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica: “il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà”, il popolo non deve delegare la propria libertà ad un popolo lontano dalle proprie esigenze.
La libertà economica è fondamentale per Cattaneo, è la prosecuzione della libertà di fare: “la libertà è una pianta dalle molte radici” e nessuna di queste radici va tagliata sennò la pianta muore. La libertà economica necessita di uguaglianza di condizioni, le disparità ci saranno ma solo dopo che tutti avranno avuto la possibilità di confrontarsi.

Cattaneo fu un deciso repubblicano e una volta eletto addirittura rinunciò ad entrare in parlamento rifiutandosi di giurare dinanzi all'autorità del Re.
Oggi Cattaneo viene richiamato quale iniziatore della corrente di pensiero federalista in Italia.
Nel 1839 fondò il periodico Il Politecnico, rivista che divenne un punto di riferimento degli intellettuali lombardi, avente come intento principale l’aggiornamento tecnico e scientifico della cultura nazionale.

Guardando all'esempio degli Stati Uniti d’America (presidenzialista) e della Svizzera cantonale (improntata alla democrazia diretta), definì il federalismo come “teorica della libertà” in grado di coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Cattaneo scrisse a riguardo: “Avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa”. Cattaneo e Mazzini videro negli Stati Uniti d’America e nella Svizzera i due unici esempi di vera attuazione dell’ideale repubblicano.

Federalista repubblicano laico di orientamento radicale-anticlericale, fra i padri del Risorgimento, era alieno dall'impegno politico diretto, e puntava piuttosto alla trasformazione culturale della società. La rivista Il Politecnico fu per lui il vero Parlamento alternativo a quello dei Savoia.
In accordo con il Tuveri redattore del Corriere di Sardegna, Cattaneo intervenne in merito alla questione sarda in chiave autonomistica locale.
In tal senso, denunciò l’incapacità ed incuranza del governo centrale nel trovare una nuova destinazione d’uso al mezzo milione di ettari (più di un quinto della superficie dell’isola) che avevano costituito i soppressi demani feudali, sui quali le popolazioni locali esercitavano il diritto di ademprivio, per usi civici.

sabato 8 dicembre 2018

Festa di a Nazione | Festa della Nazione


Auguri a tutti gli amici di Corsica nella giornata della loro festa nazionale.

La Festa di a Nazione (in italiano Festa della Nazione) è una festa che viene celebrata in tutta la Corsica dal 1735.

Due assemblee generali della Corsica svoltesi nel 1735 e una terza avvenuta nel 1761 proclamarono l'Immacolata Concezione patrona dell'isola e la giornata dell'8 dicembre, festività della patrona festa nazionale.

Il 30 gennaio 1735 la Consulta d'Orezza presieduta da Luigi Giafferi di Talasani, Giacinto Paoli di Morosaglia e da Andrea Ceccaldi di Vescovato riunita in un paese della Castagniccia e voluta da Pasquale Paoli fece entrare in vigore la Costituzione della Corsica, di tipo repubblicano scritta dall'avvocato Sebastiano Costa che proclamò l'8 dicembre "Festa Nazionale" della Corsica sotto la protezione dell'Immacolata Concezione.

Nonostante la fine della Corsica indipendente l'evento è festeggiato dagli indipendentisti corsi e celebrato particolarmente a Morosaglia, paese natale di Pasquale Paoli, a Ponte Nuovo e Borgo, teatro di due battaglie contro i francesi, e a Corte, capitale indipendentista dell'isola sotto Pasquale Paoli.

martedì 4 dicembre 2018

Día Nacional de Andalucía | Festa Nazionale dell’Andalusia


A due giorni dalle elezioni nelle quali un partito (Vox n.d.r.), che ha scritto nel suo programma “...l’assoluta contrarietà ai separatismi (catalano e basco in testa) e il desiderio di riportare maggiore potere al governo centrale smantellando il sistema delle autonomie istituito nel 1978 in Spagna...”, è entrato per la prima volta nel parlamento andaluso, la ricorrenza di oggi assume un significato ancor più importante per tutti gli autonomisti, i federalisti e indipendentisti di ogni terra e nazione.

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// Día Nacional de Andalucía //
// Festa Nazionale dell’Andalusia //


Il 4 dicembre è il giorno dell'anno in cui partiti e organizzazioni del nazionalismo andaluso rivendicano come la festa nazionale dell'Andalusia.

Questa data è stata scelta perché le manifestazioni svolte il 4 dicembre 1977 a favore dell'autonomia dell'Andalusia sono considerate dal nazionalismo come un atto di coscienza nazionale. Durante quel giorno circa due milioni di andalusi scesero nelle strade delle principali città dell'Andalusia, facendo a pezzi, il mito che in Andalusia non si avvertiva alcuna differenziazione o volontà per reclamare le istituzioni di autogoverno. Quel giorno fu ricordato anche il 4 dicembre 1868, quando il popolo di Cadice prese le armi per rivendicare la Repubblica Federale.

In questa data si commemora anche l'omicidio del lavoratore Manuel José García Caparrós per mano della polizia durante la manifestazione autonomista di Malaga.

domenica 2 settembre 2018

L’AUTONOMIA ORMAI E’ VICINA, MA PER BOICOTTARLA LE INVENTANO TUTTE


Articolo di Stefano Bruno Galli, pubblicato su Libero di oggi, nel quale replica alla petizione contro l'autonomia di Lombardia e Veneto lanciata da Gianfranco Viesti.

Nel 1950 – vale a dire due anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana e vent'anni prima della nascita delle Regioni a statuto ordinario – Gianfranco Miglio scriveva Dobbiamo mantenere, per amor di simmetria, gli stessi controlli tutori e le medesime bardature burocratiche sulla Lombardia e sulla Basilicata? Oppure dobbiamo applicare all'amministrazione pubblica gli stessi criteri pratici che si adottano anche nella più umile azienda privata, ove il collaboratore inesperto viene strettamente controllato e quello capace lasciato invece libero della propria iniziativa? Dobbiamo considerarci una specie di convoglio, costretto per l’eternità a camminare alla velocità ridotta della nave meno efficiente, oppure dobbiamo consentire alle regioni più progredite di sviluppare le proprie capacità e le proprie risorse di iniziativa, nell'interesse evidente dell’intera comunità nazionale?

Con la lucidità e l’incisività che gli erano proprie, il professore lariano metteva a fuoco – e con larghissimo anticipo rispetto alla riforma costituzionale del 2001 – l’essenza del regionalismo differenziato. Non parliamo – per carità, ma anche per amore di verità e di rigore teorico . di “federalismo” né di “secessione”, come fanno, assai impropriamente, i quaranta studiosi chiamati a raccolta dal professor Gianfranco Viesti, che hanno promosso la petizione 
No alla secessione dei ricchi. Una petizione che, sull'onda della più becera demagogia anti autonomista, ha raccolto quasi quattromila adesioni. 

I RENDIMENTI

Le trattative intavolate da Lombardia e Veneto – a seguito dei referendum consultivi dello scorso 22 ottobre – e dall'Emilia Romagna, che si è lanciata sulla scia dell’azione delle prime due regioni, si collocano nell'alveo della più stretta e rigorosa lealtà costituzionale. Si tratta di un atto di grande responsabilità istituzionale, finalizzata a sfruttare l’opportunità offerta dall'articolo 116 – al terzo comma – della Costituzione. Deliberatamente ispirato al federo-regionalismo spagnolo, il regionalismo differenziato – costituzionalizzato con la riforma del 2001 – mira a riconoscere a ogni regione dei margini di autonomia coerenti con la sua fisionomia dal punto di vista economico e produttivo, fiscale e culturale. Anche perché il regionalismo ordinario dell’uniformità – praticato dal 1970 in qua – ha creato davvero dei danni molto gravi al paese. Con l’obiettivo di garantire eguali diritti e tutele a tutti i cittadini della Repubblica, ha fatto emergere con chiarezza i differenziali di rendimento istituzionale dei territori. Nel paesaggio del regionalismo italiano, infatti, sono sotto gli occhi di tutti quelle realtà che hanno fatto un uso virtuoso dell’autonomia politica e amministrativa, per quanto – sic stantibus rebus – assai limitata. Hanno incrementato la democrazia di prossimità, ampliando i diritti di welfare e la qualità dei servizi erogati a beneficio dei cittadini, utilizzando altresì le risorse secondo criteri di elevata produttività e alta redditività. E’ quindi giusto premiare queste realtà con maggiori margini di autonomia, nell'interesse esclusivo del Paese. Non v’è nulla di male, anzi.

NUOVE MATERIE

La Costituzione prevede che le regioni in pareggio di bilancio possano chiedere – nel negoziato con il governo – sino a 23 nuove materie: tre competenze esclusive dello Stato e tutte e venti le competenze concorrenti. Non c’è nessuna controindicazione se la Lombardia – regione che ha dato i natali a Carlo Cattaneo e Gianfranco Miglio, ma anche a Giuseppe Ferrari e pure a Gianni Brera – le chiede tutte e 23, con le relative risorse per gestirle. In questo modo sgrava lo Stato di alcune pesanti incombenze , nella prospettiva di erogare servizi – per il proprio territorio – con un minore costo e una maggiore qualità, come comprovato dalle principali agenzie internazionali di rating da parecchi anni in qua. Evitiamo – per piacere – di confondere le idee e di fare illusioni al residuo fiscale, che non è oggetto del negoziato. Non confondiamo le acque, come fanno – pretestuosamente – Viesti e i suoi amici. Non è una questione di orgoglio nordista versus orgoglio sudista. Se la mettiamo su queste basi, ancora una volta perdiamo una grande occasione. La trattativa intavolata da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, ha innescato infatti un vero e proprio effetto-domino, coinvolgendo altre regioni – anche del Sud – che vedono nel modello federo regionalista, fondato sul regionalismo differenziato, un’importante opportunità di sviluppo per il Paese, ricomponendo la sua unità su nuove basi, più aderenti alla sua fisionomia storica e culturale, economica , produttiva e fiscale. Con buona pace dei sottoscrittori della petizione lanciata dal professor Viesti.

domenica 20 maggio 2018

CONTRATTO di GOVERNO | quella parola mancante...

In questo fine settimana è stato sottoposto a due diverse "votazioni" il cosiddetto "Contratto per il Governo del Cambiamento" per il via libera alla sua sottoscrizione da parte del Movimento 5 Stelle e la Lega Nord per l'Indipendenza della Padania (così si chiama ufficialmente il movimento di cui Matteo Salvini è Segretario Federale n.d.r.).

In molti, siano essi amici o semplici conoscenti, sapendo bene la mia militanza politica, mi hanno interpellato per un giudizio su testo.

Francamente ho risposto loro che di tutto il documento, che ho letto con attenzione e nel quale ho riscontrato molte parti facilmente sottoscrivibili, l'unica parte che ha raccolto la mia attenzione, ed in base alla quale esprimo un giudizio, è quella che ricade sotto il titolo "Riforme istituzionali, autonomia e democrazia diretta", in particolare nel paragrafo che riporto di seguito:
Sotto il profilo del regionalismo, l’impegno sarà quello di porre come questione prioritaria nell'agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte. Il riconoscimento delle ulteriori competenze dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse. Alla maggiore autonomia dovrà infatti accompagnarsi una maggiore responsabilità sul territorio, in termini di equo soddisfacimento dei servizi a garanzia dei propri cittadini e in termini di efficienza ed efficacia dell’azione svolta. Questo percorso di rinnovamento dell’assetto istituzionale dovrà dare sempre più forza al regionalismo applicando, regione per regione, la logica della geometria variabile che tenga conto sia delle peculiarità e delle specificità delle diverse realtà territoriali sia della solidarietà nazionale, dando spazio alle energie positive ed alle spinte propulsive espresse dalle collettività locali.
Occorre garantire i trasferimenti necessari agli enti territoriali e una contestuale cessazione delle “politiche di tagli” compiute dagli ultimi Governi.
In altre parole il nascente governo si propone di rispondere positivamente alla richiesta di maggiore autonomia alla base dei referendum di Lombardia e Veneto, svoltisi il 22 ottobre scorso.
Secondo taluni si tratta di un grandissimo risultato, ma considerando che i partiti sottoscrittori del contratto sono gli stessi che i referendum li hanno promossi, e per i quali hanno invitato a votare a favore, l'introduzione nel documento di governo della loro attuazione non è altro che il "minimo sindacale" che ci si poteva aspettare.

Quello che invece manca totalmente è una visione che vada ad incrementare ancor più le autonomie e le libertà dei territori oltre al citato articolo 116.
Una parola in particolare non è mai citata nel documento, una parola che, dalla sua nascita nei primi anni ottanta del secolo scorso, è sempre stata il programma della Lega (Lombarda, Veneta, Nord, ecc...), una parola semplice che ogni leghista vero ha nel cuore: FEDERALISMO.
Una mancanza che pesa come un macigno sul giudizio finale verso il documento che ho manifestato con una croce sulla scheda che ho preso al gazebo sabato mattina. 
Croce che potete facilmente immaginare su quale parola, tra il Sì ed il No, ho apposto.

giovedì 11 gennaio 2018

GIANFRANCO MIGLIO | IL CENTENARIO DALLA NASCITA


Nel centenario dalla nascita vi propongo uno scritto lontano nel tempo ma tremendamente attuale, buona lettura.

Ciò che attendiamo dagli Alleati e ciò che loro daremo

Articolo pubblicato su Il Cisalpino, n.1, del 27 aprile 1945.

L’insidia più pericolosa per l’idea federalista è il cosiddetto decentramento amministrativo regionale; più o meno esplicitamente promesso da alcuni partiti. Contro tale insidia mettiamo in guardia soprattutto gli amici del nostro movimento - e sono legione - militanti nella Democrazia Cristiana.

Il decentramento amministrativo regionale è un cavallo di battaglia piuttosto anzianotto, proveniente dalle scuderie del vecchio Partito Popolare, dove da puledro fece bella mostra di sé, senza peraltro riuscire mai a smuovere di una spanna il carro del regionalismo, affondato fino ai mozzi nella ghiaia del lealismo monarchico - e perciò unitario – che quel partito fu indotto ad ostentare per cancellare il ricordo del “non expedit”.

La regione è un’unità con sicuro fondamento nella storia e nelle tradizioni -sottolineano i regionalisti. Ma siffatta affermazione - almeno per la Valpadana - è un ritrito luogo comune, senz'alcun fondamento né storico, né geofisico, né economico. Rileggetevi a tal proposito le storie padane, o, se vi torna più comodo, rileggetevi le opportune voci dell’Enciclopedia Treccani: fonte non sospetta di federalismo. L’unica regione settentrionale che vanti un’unità multi secolare è la Liguria.

Essa sola ci appare configurata all’incirca com’è ora fin dai tempi danteschi (1300), quando la geografia non conosceva ancora né un Piemonte, né una Lombardia, né un’Emilia, né un Veneto, né una Venezia Giulia o Tridentina costituite in unità politiche od amministrative.

Cent’anni più tardi il “ducato” di Milano – ossia la Lombardia politica -comprende 25 “città” e si estende a tutto il Ticino svizzero, a circa un terzo dell’attuale Piemonte, a gran parte dell’Emilia, ad alcune provincie venete, mentre il Veneto veneziano è ancora limitato ad una striscia costiera. Il Piemonte si configura all'incirca come l’attuale regione solo con la pace di Aquisgrana (1748), la quale gli attribuisce però l’intera Lomellina e l’Oltrepo pavese, mentre dal medesimo trattato la Lombardia politica esce ridotta alle sole provincie di Varese, di Como, di Milano ed a porzioni delle provincie di Pavia, di Cremona e di Mantova.

La Venezia Tridentina è sempre limitata alla diocesi di Trento. Il Veneto politico invade largamente la Lombardia, alla quale sottrae Bergamo, Brescia e Crema, il territorio emiliano è ripartito fra tre diversi stati. Napoleone nel 1799 riduce il Veneto all'incirca entro i confini moderni, ma fonde la Lombardia, l’Emilia centrorientale e le Romagne nell'unità politica della Repubblica Cisalpina, mentre col successivo Regno Italico (1810) il Piemonte fino al Sesia, la Liguria, l’Oltrepo pavese, Piacenza e Parma vengono incorporati all'impero francese.

Dov’è dunque la vantata antichità che valorizzi storicamente le circoscrizioni regionali del Settentrione? In realtà la ripartizione dell’Italia nelle attuali 18 regioni venne proposta da Pietro Maestri - l’ostaggio delle cinque giornate - e fu accolta per la prima volta nelle pubblicazioni ufficiali del regno solo nel 1863: conta meno di un secolo: un’inezia per un popolo che vanta millenni di storia.

Noi siamo nettamente contrari al regionalismo “storico”. Esso segnerebbe un regresso nella nostra educazione politica perché riattizzerebbe fatalmente residui motivi campanilistici più di quanto riuscirebbe ad addestrare le nostre masse alle responsabilità dell’autogoverno, ossia alla vera democrazia.
Se noi ci fermassimo ai limitati spazi regionali, noi non potremmo rivendicare che una piccola frazione delle libertà e delle autonomie che ci occorrono per addestrare i cittadini di ciascun “Cantone” italiano al consapevole contemperamento delle aspirazioni di classe e, degli interessi locali con le necessità dell’intera Confederazione Italica e con le esigenze di una pacifica collaborazione internazionale.

Teniamo infatti a ben sottolineare che il nostro federalismo vuol essere tirocinio che prepari gli italiani al progressismo internazionalista. Il mondo marcia verso l’internazionale politica oltre che economica: se così non fosse anche la seconda guerra mondiale sarebbe un’inutile strage.
Urge pertanto di rieducare politicamente gli italiani con sana pedagogia democratica e con intenso addestramento elettorale, il che può ottenersi, meglio e più rapidamente che per ogni altra via, nel circuito di circoscrizioni cantonali che abbiano tanto contenuto politico-amministrativo da richiamare costantemente l’interesse diretto di larghe masse di cittadini.

Ma che cos'è dunque il “Cantone” per il quale si battono i federalisti cisalpini? E’ un razionale spazio geofisico, economicamente e demograficamente individuato e costituito di unità capace di fornire materia per una vita politico-amministrativa autonoma e fattiva, col minimo possibile di ciarpame burocratico. La Liguria, il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia e le Tre Venezie, ossia tutta l’Italia settentrionale nel suo insieme costituisce un’armonica unità geografica, economica, etnica e spirituale, ben degna di governare sé stessa: sarà il “Cantone Cisalpino”, con capitale in Milano, baricentro della Val Padana, sarà il cantone campione che rimorchierà l’Italia intera sull'erta del risorgimento nazionale.

E quali dovrebbero essere gli altri “Cantoni” d’Italia? Ligi al principio democratico i federalisti cisalpini rispetteranno la piena libertà dei fratelli peninsulari di ordinare i rispettivi cantoni nel modo che essi riterranno migliore. Non è tuttavia chi non veda come la Sicilia e la Sardegna abbiano dalla natura stessa, oltre che dalla storia, dall'indole della popolazione, dal proprio dialetto, dal propri interessi economici il diritto di costituirsi a “Cantone Siculo” e “Cantone Sardo”, rispettivamente con capitale a Palermo ed a Cagliari.

Con altrettanta evidenza Napoli – metropoli intellettuale e storica del Mezzogiorno - ha ben diritto di costituirsi a capitale d’un “Cantone” che difenda ed armonizzi ed acceleri la rinascita economica della Calabria, della Lucania, delle Puglie, della Campania, del Molise e fors’anche dell’Abruzzo.
Meno evidente è invece l’interesse delle regioni centrali a costituirsi in un unico cantone con capitale in Roma oppure con capitale in Firenze, lasciando l’Urbe retta a Territorio federale autonomo, o piuttosto in un “Cantone” Tosco-Umbro-Marchigiano - il cantone a schietta economia mezzadrile - gravitante su Firenze, ed in un “Cantone” Laziale gravitante su Roma. Ne devono giudicare le popolazioni interessate. L’Urbe - decongestionata dalla pletorica burocrazia che vi si annida e che vi si anniderebbe in qualsiasi Italia a struttura centralizzata – sarà sempre la sede naturale e necessaria dei Governo Federale, la Patria comune delle genti italiche.

Il nostro è un abbozzo. I cisalpini, che la comune fede democratica convoglia nel movimento federalista da diversi partiti politici - non intendono minimamente forzare i fratelli peninsulari e costituirsi in quattro piuttosto che in otto cantoni. La razionalità dei cantoni peninsulari emergerà dalla libera discussione e valutazione degli interessi locali e tale razionalità sarà la migliore garanzia dell’efficienza della futura vita politico-amministrativa dei Cantoni italici.

venerdì 22 dicembre 2017

CATALUNYA | vincono gli Indipendentisti e sparisce Rajoy


Ieri si è votato in Catalogna, alla fine di una delle campagne elettorali più eccezionali e imprevedibili degli ultimi anni in Europa. Le elezioni erano state convocate dal primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, dopo l’inizio di una grave crisi tra governo catalano e stato spagnolo: cioè dopo il referendum sull'indipendenza della Catalogna dell’1 ottobre e la successiva dichiarazione d’indipendenza approvata dal Parlamento catalano, entrambe giudicate illegali dal governo spagnolo. Il voto di ieri, nelle intenzioni di Rajoy, avrebbe dovuto disinnescare il progetto indipendentista, ma le cose sono andate diversamente.

Il blocco indipendentista – formato da Junts per Catalunya (JxCat), la lista dell’ex presidente Carles Puigdemont, Esquerra Republicana (ERC), la sinistra indipendentista dell’ex vicepresidente Oriol Junqueras, e la CUP, la sinistra radicale – ha ottenuto di nuovo la maggioranza parlamentare: 70 seggi, due in più di quelli necessari per controllare il Parlamento catalano.

La lista più votata del blocco indipendentista è stata quella dell’ex presidente Carles Puigdemont, che ha dichiarato: "In qualità di Presidente legittimo, mi complimento con i cittadini catalani per la partecipazione record. Il risultato non può essere messo in dubbio: la Repubblica Catalana ha battuto la monarchia del 155. Mariano Rajoy Brey ha perso, il Governo legittimo deve tornare a guidare il paese e tutti i prigionieri politici devono essere liberati. L'Europa deve prendere nota che la ricetta di Rajoy non funziona"

Primo partito Ciudadanos che, per bocca del suo leader nazionale Alberto Rivera, lascia trasparire chiaramente l'impronta neofranchista che gli ha permesse di svuotare il seppur esiguo bacino elettorale del Partito Popolare di Rajoy che ha raccolto solo tre seggi. 

Ha dichiarato infatti Rivera: “Non siamo stati duri noi, ma molle il Pp che per 35 anni ha costruito il proprio potere a Madrid scendendo a patti con i nazionalisti e concedendo loro quel che volevano", punta il dito il leader del primo partito catalano, sostenendo che "quando si passano tre decenni a cedere spazio a chi cerca di occuparlo tutto, finisci per trovarti fuori. Ed è quello che è successo".

Per la seconda volta in pochi giorni, la prima è avvenuta in Corsica, un vento caldo di libertà sferza un'Europa incapace di comprendere come il modello dello "stato-nazione" si stia incrinando ogni giorni di più.

Un vento che ostinatamente soffia anche in un certo NORD, quello della Valle del Grande Fiume.

lunedì 11 dicembre 2017

CORSICA | grande vittoria dei nazionalisti



Domenica scorsa, 10 dicembre, la coalizione autonomista e indipendentista “Pe’ a Corsica” di Gilles Simeoni e Jean-Guy Talamoni ha vinto il secondo turno delle elezioni territoriali in Corsica con il 56,5 per cento dei voti, e 41 su 63 dei nuovi consiglieri dell'assemblea.

Le altre tre liste che avevano superato il primo turno sono arrivate molto indietro : quella di Jean-Martin Mondoloni (destra regionalista) ha ottenuto il 18,29 per cento, quella de La République en Marche – il partito del presidente francese Macron – guidata da Jean-Charles Orsucci il 12,67 e quella de Les Républicains di Valérie Bozzi – cioè il tradizionale centrodestra francese – il 12,57.
Il candidato del Front National non pervenuto al primo turno...

Quelle di domenica sono state elezioni anticipate, perché dal primo gennaio del 2018 ci sarà una riorganizzazione territoriale della Corsica: la nuova “Assemblea della Collettività” – che sarà formata da 63 rappresentanti – sostituirà i due dipartimenti in cui è stata finora divisa l’isola.

Gilles Simeoni diventerà il primo presidente di questa nuova Collettività: figlio di uno dei “padri” del nazionalismo corso, Edmond Simeoni, che nel 1975 vicino ad Aleria guidò con il fratello la prima azione del movimento autonomista: con circa 30 uomini armati di fucili da caccia occupò una cantina vinicola appartenente a un importante imprenditore di origine pieds-noirs, un ex colono francese in nord Africa, per protestare contro una truffa che minacciava di rovinare centinaia di piccoli viticoltori. Gilles Simeoni militò nel movimento fondato dal padre e divenne famoso per aver difeso in tribunale l’indipendentista corso militante Yvan Colonna, condannato all’ergastolo perché accusato di essere l’autore dell’omicidio del Prefetto Claude Érignac il 6 febbraio 1998 ad Ajaccio. Nel 2014 Gilles Simeoni è stato poi eletto sindaco di Bastia e ha contribuito ai successi elettorali della coalizione nazionalista dei successivi due anni.

Dopo la vittoria Gilles Simeoni ha detto che «Parigi avrà oggi una misura di ciò che sta accadendo in Corsica». Domenica notte il primo ministro Edouard Philippe ha chiamato il leader autonomista inviandogli le proprie «congratulazioni repubblicane» e dicendo di essere disponibile «a riceverlo». Anche il ministro dell’Interno del governo Macron, Gérard Collomb, ha voluto assicurare «ai nuovi eletti la disponibilità del governo, in uno spirito di ascolto, dialogo e rispetto reciproco». Simeoni ha spiegato ai rappresentanti del governo Macron che «al di là della cortesia formale, ci aspettiamo e speriamo in un dialogo autentico: le condizioni non sono mai state così favorevoli per la questione corsa da risolvere in modo pacifico e duraturo con una soluzione politica».

venerdì 12 maggio 2017

LEGA NORD | il programma politico di Gianni FAVA. Candidato alla carica di Segretario Federale


Programma Politico di GIANNI FAVA
Candidato a Segretario Federale della Lega Nord

IL CONGRESSO FEDERALE
- Per comprendere al meglio i motivi della mia candidatura, è bene, come sempre, ricordare brevemente gli ultimi tre anni di mandato del Segretario uscente.
Il Congresso del dicembre 2013 si celebrò con il passaggio da “Prima il Nord” ad un più sfumato, per quanto ancora apprezzabile “Futuro è indipendenza”; fu comunque un congresso dove le derive nazionaliste erano assolutamente sullo sfondo dato che la collaborazione con il FN della Le Pen si limitava ad una “comunanza di intenti sui temi dell’immigrazione della sicurezza” e non c’erano derive sovraniste che intendevano cancellare le regioni, le identità e le autonomie locali. Si parlava già della moneta unica ma Salvini, intelligentemente, sposava la tesi della Lega per la quale la crisi dell’Euro avrebbe portato a due monete diverse ed il Nord avrebbe potuto tentare di essere indipendente dal punto di vista monetario sfruttando quella più forte. Un Congresso dove i militanti erano ancora al centro dell'attività politica e la meritocrazia era il mezzo con il quale si formava la classe dirigente.


SINDACATO DEL NORD - Un congresso della Lega Nord con qualche sfumatura più di destra su alcuni temi, nonostante la Lega Nord sia sempre stato un movimento post-ideologico. In poco tempo il Segretario uscente ha invece stravolto il progetto politico attorno al quale si erano creati enormi consensi, erosi solo da vicende NON politiche, per rincorrere solo il facile consenso. Operazione intelligente, se limitata ad un periodo brevissimo ed in funzione elettorale, cosi come avvenne per le Europee. Devastante tuttavia sul lungo periodo tanto da aver rinnegato i principi cardine di un movimento che rappresentasse il vero “Sindacato del Nord” per cercare, con un partito autoreferenziale, consensi in aree che nulla hanno a che fare con la nostra storia e la nostra cultura, non solo politica ma anche etica

UN CONGRESSO DECISIVO - E’ dunque importantissimo poter discutere la linea di un movimento come la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania: è un segnale di democrazia che non si può non apprezzare. Ed è anche un’occasione imperdibile per contribuire alla sua definizione in momento cruciale della sua storia. Le scelte che faremo al congresso saranno decisive per il futuro, perché riguardano le basi, i principi ispiratori dell’azione politica, ad ogni livello. E per ricordarci chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare.

STATO FEDERALE - . Uno Stato al servizio del cittadino, garante delle sue libertà, dei suoi diritti e della sua più completa realizzazione. Uno Stato, una comunità, che metta la Libertà al primo posto assoluto nella scala dei valori universali. La Lega storicamente combatte il centralismo, chiede meno tasse, più potere alle comunità, più sussidiarietà, in una parola vuole “meno Stato”. E maggiore libertà. 

EUROPA - L’Europa ha senso se è delle Regioni. E questo è inesorabilmente il suo futuro. Lo aveva già ipotizzato nel 1992 la Fondazione Agnelli, è stato fatto un importante passo in avanti con la costituzione della Macro Regione alpina, Istituzione ufficiale della Unione Europea di cui fanno parte le regioni del Nord, la Svizzera, l’Austria, la Baviera, la Slovenia e la Savoia; aree geografiche e socio economiche simili, con interessi simili, con visioni, culture, tradizioni e capacità di sviluppo simili. E per la Lega Nord non può che essere questo il modello: i tecnocrati di Bruxelles vanno ridimensionati drasticamente, ma con l’Europa si tratta, perché la Padania ha tutto il diritto di restare nell'Europa che conta. La Lega Nord per l’Indipendenza della Padania ha da anni scelto il modello riformista per cambiare il Paese. Questo significa che, per incidere positivamente nelle riforme a favore del Nord e del Federalismo, è necessario che la Lega governi ovunque a livello locale. Se possibile, anche a livello nazionale. E se per governare si è costretti a fare alleanze, abbiamo un solo discrimine: chi fa accordi con la Lega deve avere a cuore il territorio del Nord e la gente del Nord. 

Per questo la Lega Nord non può schierarsi pregiudizialmente e ideologicamente né a destra né a sinistra, ma solo e sempre tatticamente con chi nei fatti si dimostra più vicino alle nostre istanze. 

REGIONI AUTONOMEUn passaggio intermedio, oramai a portata di mano in Veneto e Lombardia, riguarda l’autonomia delle Regioni, mediante referendum che funge da propulsore da una parte all'attuazione delle competenze regionali indicate dalla Costituzione; dall'altra all'ottenimento di nuove e maggiori competenze, a cominciare da quelle fiscali. In sintesi: padroni di spendere a casa nostra i nostri soldi.

Più temi non fanno una Linea Politica. I temi dell’uscita dall'euro, della sicurezza, della lotta all'immigrazione indiscriminata, uniti al suo carisma e genio comunicativo, hanno portato notevoli consensi.
Ma più temi, per quanto importanti e giusti, non fanno una linea politica. Non dobbiamo farci ingannare dalla coincidenza di certe battaglie con quelle di partiti di destra, sovranisti e statalisti. Possono, e ci sono di fatto, battaglie politiche comuni, ma la Lega è una cosa diversa, perché rappresenta un popolo diverso. I consensi sono importanti, anzi decisivi per poter governare, ma diventano sterili se una volta al governo devi rispondere a interessi inconciliabili come lo sono evidentemente quelli di chi vuole trattenere e gestire più risorse nel suo territorio e chi queste ricchezze le reclama per sé pur non avendole prodotte. A volte può essere più utile all'affermazione di istanze autonomiste un consenso concentrato in poche aree geografiche se espresso da un popolo unito e coeso, politicamente omogeneo e determinato, piuttosto che un consenso più diffuso, magari anche leggermente più alto frutto della sola abilità di cavalcare temi forti, ma estemporanei, non sostenuti da una linea e da una prospettiva politica coerente. Ecco perché con il Front National di Marine Le Pen è possibile fare alleanze tattiche in chiave anti europea, ma non sodalizi strategici: siamo due realtà distanti e distinte, con storia e prospettive diverse. La Lega nord per l’Indipendenza della Padania lotta ESCLUSIVAMENTE per la libertà del Nord.

PARTITO - Auspico il rilancio di un Movimento moderno e liberale dove regni la libertà di pensiero, di parola e di azione nel rispetto dei vertici e delle istituzioni dello stesso in ogni ambito. Solo con una Lega unita che rispetti la propria tradizione e vocazione potremo finalmente diventare il Sindacato del Nord. 

mercoledì 10 agosto 2016

GIANFRANCO MIGLIO | il ricordo a 15 anni dalla scomparsa


Ogni giornata che viviamo è corredata da diversi anniversari, alcuni lieti come altri fonte di tristezza e ricordo. Quella di oggi ricade nella seconda delle due categorie.

Cade oggi infatti il 15° anniversario dalla scomparsa di Gianfranco Miglio e per ricordarlo vi proponiamo una breve biografia, certo non esaustiva di tutta la storia personale, di uno dei Grandi di Lombardia cui le nostre terre hanno dato i natali.


Buona lettura. 

Nacque a Como l’11 gennaio del 1918, terzo di quattro figli, da Leonida, di professione pediatra, e da Maria Rosa Pagani.

In famiglia – di nobili origini per la parte paterna e da secoli insediata nell’Alto Lario – respirò un clima intriso di positivismo e di passione per la scienza, che ne condizionò la formazione ideale e gli interessi culturali; per tutta la vita, accanto agli studi politici, egli avrebbe coltivato un forte interesse per le discipline naturalistiche, per la geografia e, in particolare, per l’architettura. 

LA FORMAZIONE GIOVANILE 


Dopo gli studi liceali, nel 1936 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università cattolica di Milano, dove ebbe come maestri il giurista G. Balladore Pallieri (con il quale si laureò nel 1940 con un lavoro avente come tema «Le origini e i primi sviluppi delle dottrine giuridiche internazionali pubbliche nell’Età moderna») e il filosofo della politica A. Passerin d’Entrèves (che lo avviò allo studio di Th. Hobbes e gli fece conoscere l’opera di C. Schmitt). 

Nel periodo tra la fine del regime mussoliniano e la nascita della Repubblica frequentò gli ambienti dell’antifascismo cattolico lombardo e aderì al gruppo di federalisti che si raccoglieva intorno al periodico Il Cisalpino diretto da T. Zerbi. Nel 1943 si iscrisse alla Democrazia cristiana (DC), nelle cui file militò sino al 1959, quando se ne distaccò polemicamente non condividendone quella che giudicava una deriva clientelare e affaristica. 

Nel frattempo aveva iniziato una brillante carriera accademica all’interno dell’Università cattolica. Libero docente di storia delle dottrine politiche nel 1948, divenne straordinario della stessa disciplina nel 1956, per poi assumere, a partire dal 1959, l’incarico di preside della facoltà di scienze politiche, che mantenne ininterrottamente sino al 1989.

I PRIMI LAVORI 


I suoi primi lavori a stampa – il volume del 1942 dedicato a La controversia sui limiti del commercio neutrale fra G.M. Lampredi e F. Galiani (Milano), il saggio dello stesso anno su Marsilio da Padova (La crisi dell’universalismo politico medioevale e la formazione ideologica del particolarismo statuale moderno, Padova), lo scritto del 1955 su La struttura ideologica della monarchia greca arcaica ed il concetto «patrimoniale» dello Stato nell’Età antica, la prolusione del 1957 sui caratteri che rendono unitaria e peculiare la tradizione politica occidentale – già denotavano alcuni dei temi che sarebbero stati al centro delle sue successive ricerche: la relazione tra la politica e il diritto, entrambi caratterizzati da una reciproca autonomia, basati l’una sul rapporto di obbligazione e l’altro su una logica contrattuale; la dialettica tra l’ordine politico «interno» (fondato sulla concordia civile, sul principio di «esclusione» e sulla distinzione tra governanti e governati, tra comando e obbedienza) e la sfera dei rapporti «esterni» o internazionali (che restano il regno della forza, e dunque della guerra, a dispetto dei tentativi fatti per sottoporre i rapporti tra unità politiche sovrane a forme di regolamentazione giuridica); la tendenza, tipica degli ordinamenti politici, a concentrare il potere e l’autorità nelle mani di gruppi ristretti (l’oligarchia) o di un sovrano (la monocrazia).

Ma mostravano al tempo stesso un approccio allo studio dei fenomeni politici che sarebbe anch’esso rimasto costante nei successivi decenni, caratterizzato – oltre che da un esplicito riduzionismo metodologico, da una visione razionale della storia e da un realismo non privo di agnosticismo – dall’attenzione per i «tempi lunghi» della storia, per le «regolarità» empiriche che scandiscono, al di là delle contingenze spazio-temporali, la vita di ogni comunità politica organizzata e più in generale i comportamenti politici, per l’intreccio tra dottrine e istituzioni politiche, per i caratteri che fondano il «politico» inteso come sfera autonoma e originaria dell’azione sociale.  

L’EVOLUZIONE DEGLI STUDI 

A partire da questi assunti teorici si comprende meglio il passaggio, negli anni Sessanta, dagli studi in chiave storica a una conoscenza, per quanto possibile, freddamente scientifica e oggettiva della politica, che da allora in poi divenne l’obiettivo precipuo del suo impegno intellettuale. 

In questo nuovo quadro vanno inserite, per esempio, le sue ricerche sulla storia e la scienza dell’amministrazione, ispirate alla convinzione che lo sviluppo storico dello Stato moderno, dalla sua fase monarchico-assolutistica a quella costituzionale-sociale novecentesca, sia stato non solo il frutto di una complessa elaborazione «ideologica» le cui radici affondano nella teologia politica della Controriforma e nel mito, anch’esso di natura religiosa, dell’unità del potere sovrano, ma abbia anche obbedito a una intrinseca razionalità di natura tecnico-giuridica, che storicamente si è espressa nel decisivo ruolo di governo assunto, a partire dal XVII secolo, dal ceto dei burocrati di professione nei diversi rami dell’amministrazione statale. 

Su queste tematiche svolse anche un’intensa opera di organizzatore culturale, attraverso la costituzione, nel 1959, dell’Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica e, nel 1961, della Fondazione italiana per la storia amministrativa. Il suo obiettivo, attraverso queste iniziative, la seconda in particolare, fu quello di riformare l’amministrazione pubblica italiana e di creare una grande scuola di governo sul modello dell’École nationale d’administration (ENA) francese. Un tentativo frustrato dalla classe politica del periodo, che finì ben presto per lesinare finanziamenti e sostegno organizzativo a quest’ambizioso progetto. Il che spinse il M., qualche anno più tardi, a spostare la sua attività dal versante «pubblico» a quello «privato» e ad avviare una stretta collaborazione con E. Cefis, per conto del quale diresse la scuola di formazione dell’ENI.

Il suo intendimento, anche in questo caso, fu quello di contribuire alla selezione dei gruppi dirigenti e dei quadri tecnici necessari per il buon funzionamento dell’apparato politico pubblico e, in particolare, di un sistema economico, quello capitalistico-industriale, sempre più segnato dalla presenza delle grandi aziende multinazionali.  


LA SCIENZA POLITICA 

Sempre nel contesto di una scienza della politica che il M. voleva demistificante e avalutativa, sulla scia degli insegnamenti di M. Weber e della tradizione della Staatslehre germanica, va inserita anche la prolusione accademica che tenne nel 1964 sul tema Le trasformazioni dell’attuale regime politico. 

In essa, tra molte contestazioni, egli ipotizzò, partendo da una analisi assai critica della situazione politica italiana, la crisi dell’ordinamento repubblicano vigente (basato sullo Stato di diritto e su una forma di parlamentarismo assoluto o «integrale») e la sua evoluzione verso un modello costituzionale di stampo autoritario e plebiscitario, l’unico a suo giudizio in grado di legittimare una classe politica ideologicamente coesa e sottratta al condizionamento dei partiti e della molteplicità di interessi, spesso divergenti, da questi ultimi rappresentati. Da questa interpretazione del «caso italiano» – considerato emblematico del declino del modello statuale classico e delle trasformazioni che stavano investendo i regimi elettivo-rappresentativi sotto la spinta di un tumultuoso progresso tecnologico – il M. sarebbe partito per le sue ricerche in materia di «ingegneria istituzionale», che lo tennero occupato per circa un decennio e che sarebbero culminate, negli anni Ottanta, in un articolato e ambizioso progetto di revisione costituzionale. Le proposte elaborate dal Gruppo di Milano, dal nome della commissione di studio da lui promossa e coordinata tra il 1980 e il 1983, puntavano a risolvere il deficit di autorità e di capacità decisionale dei governi italiani attraverso l’elezione diretta del primo ministro, il conseguente ampliamento dei poteri dell’esecutivo, il meccanismo della «sfiducia costruttiva» e il rafforzamento dei poteri di garanzia rappresentati dal capo dello Stato (eletto dal Parlamento nella veste di «custode» della Costituzione) e dalla Corte costituzionale. 

Un progetto nel segno del «decisionismo», concetto che il M. aveva mutuato dal pensiero di Schmitt, che egli aveva fatto conoscere in Italia nel 1972 curandone una raccolta di saggi, Le categorie del «politico» (Bologna), che ebbe una grande influenza sul dibattito politico-giuridico di quegli anni e che segnò in modo irreversibile la fortuna del giurista tedesco nella cultura italiana. L’idea era che, stante l’avversione delle forze politiche a un cambiamento radicale dell’assetto istituzionale vigente, che avrebbe finito per ridurre il loro controllo sulla macchina pubblica, si sarebbe dovuto procedere forzando i meccanismi di revisione previsti dall’art. 138 della Costituzione, attuando uno «sbrego», come egli lo definiva, che sarebbe poi stato sanato attraverso lo strumento del referendum popolare.

Le proposte del Gruppo, per quanto oggetto di un ampio dibattito, non ebbero tuttavia alcun seguito politico, rafforzando così il convincimento che nell’Italia dominata dalla «partitocrazia» un cambiamento delle regole del gioco si sarebbe potuto ottenere solo dall’esterno del sistema, attraverso una crisi politica o economica di vasta portata.  


L’IMPEGNO POLITICO 

Lasciato l’insegnamento universitario, nel 1988, l’ultima fase della vita, quella che lo portò a diventare un personaggio assai noto anche presso il largo pubblico, fu segnata dall’avvicinamento al movimento leghista, dall’impegno politico-parlamentare e da una strenua battaglia a favore del federalismo. 

Nel Movimento Lega Nord, dopo le delusioni degli anni precedenti, egli vide ciò che Pareto aveva visto nel fascismo nascente: una forza politica nuova e radicale, popolare e ideologicamente motivata, estranea ai tradizionali giochi di potere, in grado perciò di imprimere una spallata decisiva a un regime politico che egli giudicava in crisi irreversibile e al suo inter;no profondamente corrotto.

Pur senza aderire formalmente alla Lega, il M. accettò di candidarsi al Senato come indipendente nelle sue file, dove venne eletto nelle legislature XI (aprile 1992-aprile 1994) e XII (aprile 1994-maggio 1996). Ma i contrasti insorti ben presto con il leader leghista U. Bossi, che non ne appoggiò la nomina a ministro per le Riforme istituzionali nel primo governo Berlusconi (maggio 1994), lo spinsero a una traumatica rottura, che avrebbe raccontato in un caustico libretto apparso nel settembre di quello stesso anno (Io Bossi e la Lega: diario segreto dei miei quattro anni nel Carroccio, Milano). Dopo l’allontanamento dalla Lega, nel 1995 diede vita al Partito Federalista, del quale fu presidente. L’alleanza con il Polo delle libertà gli consentì di essere nuovamente eletto al Senato per la XIII legislatura (maggio 1996-maggio 2001). 


In questo periodo, segnato da un non facile equilibrio tra analisi scientifica e impegno politico militante, la sua antica polemica contro lo Stato unitario e accentratore lo portò a sostenere la legittimità della rivolta fiscale e della disobbedienza civile e a farsi paladino di un modello federale di matrice contrattualistica che prevedeva, sull’esempio dei cantoni svizzeri, la divisione dell’Italia in alcune grandi aree macroregionali e la nascita di una forma di governo di stampo «direttoriale». Una prospettiva istituzionale e una battaglia politica talmente radicali da accentuare la sua antica fama di studioso eccentrico e solitario.

Morì a Como il 10 agosto 2001.


Biografia tratta da: www.treccani.it – Dizionario Biografico degli Italiani

domenica 6 dicembre 2015

REGIONALES2015 | Liberté Autonomie Fédéralisme

Un sincero augurio per un grande risultato a tutte le liste, movimenti e partiti alsaziani, bretoni, corsi, occitani, baschi, savoiardi e dei territori d'oltremare che in nome della libertà, dell'autonomia, del federalismo e dell'indipendenza si presentano oggi nel primo turno delle elezioni dipartimentali francesi (le nostre regionali).

‪‎Alsazia‬ ‪Bretagna‬ ‪Corsica‬ ‪Occitania‬ ‪Euskadi‬ ‪Savoia‬ ‪Libertà‬ ‪Autonomia‬ ‪‎Federalismo‬ ‪Indipendenza‬ ‪Francia‬ ‪‎Regionales2015‬


lunedì 16 novembre 2015

LOMBARDIA | Maroni: Renzi bugiardo, avanti col referendum sull'autonomia.

Roberto Maroni: Renzi non ha mantenuto la parola sui costi standard, ora avanti col referendum sull'autonomia.

(ANSA) - MILANO, 16 NOV - "A questo punto, visto che il Governo non ha mantenuto la parola data, mi pare non ci sia altra strada che fare il referendum per l'autonomia l'anno prossimo". Lo dichiara il governatore Roberto Maroni.

"Noi abbiamo messo alla prova il Governo sui costi standard ma non ha mantenuto la parola: Renzi a metà ottobre - aggiunge - aveva detto pubblicamente, e privatamente a me, che avrebbe messo in legge i costi standard, in quanto principio di equità. Poi ha fatto retromarcia e al posto dei costi standard nella legge di Stabilità ci sono i tagli lineari. È chiaro che, se questa legge di Stabilità venisse confermata, l'anno prossimo subiremo dei tagli pazzeschi, non solo sulla sanità, e questo avrebbe ripercussioni negative sui cittadini e ci impedirebbe di investire sul territorio".

"Per questo - aggiunge Maroni in una nota - mi rivolgo a tutte le forze politiche lombarde, a prescindere dal colore politico, perché è interesse di tutti convincere il Governo a modificare questo assurdo criterio dei tagli lineari".

sabato 19 settembre 2015

Buon Compleanno Umberto!


Correva l'anno 1992, avevo appena compiuto 16 anni, e si era alla vigilia delle elezioni politiche che avrebbero portato, per la prima volta, ad una presenza importante in parlamento della Lega Nord.

Tra le numerose tappe di quella campagna elettorale ne ricordo una in particolare, il primo comizio di Umberto Bossi che ascoltai dal vivo a Crema in Piazza Garibaldi.

Da quel giorno iniziò l'interesse, cresciuto negli anni fino a sfociare nella militanza arrivata a quasi tre lustri nel movimento, per gli ideali di libertà, autonomia e federalismo nei quali continuo a credere.

Grazie Umberto e Auguri per il tuo 74esimo Compleanno, per tutto quello che è stato col rammarico di cosa poteva ancora essere fatto se la malattia non avesse incrociato la tua strada e tutti quei parassiti che da essa hanno ottenuto prebende, coltivato interessi e sfasciato il movimento non ne avessero approfittato.

Parassiti (cerchisti per gli "amici") che ancora oggi, in molti casi, infestano il movimento...

lunedì 10 agosto 2015

in MEMORIA di Gianfranco MIGLIO


Gianfranco MIGLIO

(Como, 11/01/1918 - 10/08/2001)

"Dal confine alpino al crinale dell'appennino tosco-emiliano l'Italia transpadana e cispadana ha una sua specifica ragion d'essere, una sua fisionomia economica produttiva storica e perfino linguistica da richiedere, per il suo pieno sviluppo, anche a beneficio dell'intera nazione, una sua posizione esatta e spiccata in seno all'Italia che sta nascendo. L'unità d'Italia non potrà essere fatta che su altre basi [...] La Liguria, il Piemonte, la Lombardia, l'Emilia e le Tre Venezie, ossia tutta l'Italia settentrionale nel suo insieme costituisce un'armonica unità geografica, economica, etnica e spirituale, ben degna di governare se stessa."

(da Il Cisalpino, 22 luglio 1945)

lunedì 3 agosto 2015

#PANTHEON | Miglio, Cattaneo, Salvadori

Gianfranco Miglio, Carlo Cattaneo e Bruno Salvadori
Ascoltando le parole di Gianfranco MIGLIO mi sono appassionato a parole per troppo tempo dimenticate quali FEDERALISMO, AUTONOMIA e SECESSIONE, non solo quali meri termini accademici da studiare in qualche aula universitaria, ma come IDEALI da perseguire.

Leggendo gli scritti di Carlo CATTANEO ho compreso cosa sia la LOMBARDIA e l'orgoglio di esserne figlio e il privilegio di viverci ogni giorno.

Militando nella sezione intitolata a Bruno SALVADORI ho iniziato un percorso, che prosegue nonostante tutto ancora oggi, fatto di vittorie e sconfitte, gioie e incazzature (gli amici sanno a cosa mi riferisco...).

Ed è pensando a questi tre grandi uomini, a quello per cui hanno vissuto, che: "un'Italia sociale e nazionale, secondo la visione risorgimentale, mazziniana, corridoniana, futurista, dannunziana, gentiliana, pavoliniana e mussoliniana."

NON È IL PAESE IN CUI VOGLIO VIVERE!
NON È IL FUTURO CHE VOGLIO PER LA MIA TERRA!

lunedì 8 giugno 2015

in MEMORIA di Bruno SALVADORI

Nel 35° anniversario della prematura scomparsa, avvenuta a soli 38 anni in un incidente stradale, un doveroso ricordo di Bruno Salvadori.

“Nascere in Valle d'Aosta o avere antenati valdostani da innumerevoli generazioni non vuole affatto dire che si faccia parte della comunità etnica valdostana. L'ethnie è una scelta perché non può assolutamente essere un atto passivo, ma richiede una lotta costante, con i mezzi di cui ognuno può disporre per la sua difesa e, soprattutto, per la sua proiezione nell'avvenire”

(Bruno Salvadori, "Ethnie": un nuovo modo di concepire la realtà sociale e politica, da L'Union des Valdôtains, marzo 1974)

Bruno Salvadori (Aosta, 23 marzo 1942 – Genova, 8 giugno 1980) è stato un giornalista e politico italiano. Aderente sin dalla giovane età al movimento politico valdostano dell'Union Valdôtaine attraverso la sezione giovanile della Jeunesse Valdôtaine, in cui entrò nel 1965, ha lavorato al SAVT (il sindacato dell'area autonomista) e ha diretto il settimanale del Mouvement, Le peuple valdôtain. Dopo aver ricoperto l'incarico di capo ufficio stampa della Giunta regionale, nel 1978 è stato eletto consigliere regionale, ruolo che ha ricoperto sino alla sua morte, avvenuta sull'autostrada Genova - Ivrea a Voltri, a causa di un incidente mentre era alla guida della sua auto.

Il pensiero politico: l'influenza sull'Union Valdôtaine e la Lega Nord

Teorizzatore dell'autodeterminazione dei popoli (le cosiddette nazioni senza Stato), e dell'appartenenza ad un popolo tramite criteri culturali e non di sangue, portò significativi mutamenti nel pensiero dell'Union Valdôtaine, fino ad allora un partito legato essenzialmente alle famiglie di origine valdostana: l'autonomismo diveniva così una scelta e non una mera tradizione politica.

Teorizzò e riuscì a portare a termine l'unificazione dei movimenti regionalisti, indipendentisti e federalisti della Valle d'Aosta, ricompattando l'UV dopo la fuoriuscita dell'ala progressista (Union Valdôtaine Progressiste, UVP), della quale lui stesso ha fatto parte. Portò progressivamente il pensiero del mouvement ad abbandonare il concetto di allargamento e rafforzamento dell'etnia valdostana (contenuto nello Statuto UV del primo dopoguerra) per arrivare progressivamente al concetto di Europa dei popoli, teorizzato da Émile Chanoux e contenuto nella Dichiarazione di Chivasso.

Sottolineò l'importanza di ottenere una maggioranza assoluta dei seggi in Consiglio Valle tra i soli movimenti autonomisti, nei quali vedeva l'unica via per il perseguimento dell'autonomia speciale valdostana, con uno smarcamento totale dai partiti nazionali italiani.

Le convinzioni federaliste di Salvadori contribuirono a formare il pensiero leghista, e in particolare quello di Umberto Bossi, che successivamente, sulla traccia lasciata da Salvadori, federò i movimenti e i partiti federalisti e indipendentisti del nord Italia.

giovedì 19 febbraio 2015

IDEE & RIFLESSIONI | Perché la #Lombardia dice basta

Il padre della battaglia per il referendum autonomista, appena approvato dal Consiglio Regionale, ci spiega il senso della proposta.

di Stefano Bruno Galli

Almeno tre sono i dati politici che emergono dal voto dell’altro ieri nel Consiglio regionale lombardo per l’approvazione del referendum autonomista. Anzitutto il Governatore, Roberto Maroni, s’è confermato un vero leader: ha tenuto compatta e coesa la sua maggioranza attorno a sé in una partita davvero difficile. E l’ha vinta, facendo leva sul “modello lombardo” di aggregazione del centrodestra. Un modello che a questo punto aspira a trasformarsi in una formula politico-istituzionale efficace e di successo, nell'ambito della quale la lista civica del Presidente ha svolto un ruolo non marginale (chi scrive è stato colui che, un anno fa, ha innescato il percorso e poi ha fatto il relatore in aula della proposta referendaria).

Per spuntarla ci volevano 54 voti. Ai 49 della maggioranza si sono aggiunti quelli – anche loro compatti e coesi – del Movimento 5 stelle. I grillini lombardi, vittima per tutta la giornata delle polemiche, degli strali e dei violenti attacchi dei consiglieri del Pd, non si sono persi d’animo. Hanno combattuto la loro battaglia per una procedura di fronte alla quale sono sempre stati sensibili, quella della democrazia diretta, nel nome di un significativo “lombardismo”, anteponendo cioè gli interessi dei lombardi alle rendite partitiche di posizione. Hanno assunto una posizione autonoma e indipendente rispetto alla minoranza, smarcandosi con coraggio e disinvoltura. E hanno dimostrato che la protesta non ha senso se non viene appoggiata su una proposta all'altezza della sfida.
Il terzo elemento politico emerso dal voto referendario è l’isolamento del Pd, relegato in un angolo a fare un’opposizione sterile, infruttuosa e addirittura controproducente. Certo il Pd a Roma governa. E nel segno di un ferreo centralismo cerca di riorganizzare – a colpi di maggioranza e di rissa parlamentare – l’architettura della repubblica, revocando i poteri periferici per ricollocarli al centro. Orrenda e inaccettabile riaffermazione dello Stato burocratico e accentratore. In Consiglio regionale il Pd è dimidiato perché non riesce a conciliare le ragioni di Roma con le giuste ambizioni di autonomia politica e amministrativa della Lombardia. Quando a prevalere sono gli interessi romani su quelli del grande popolo lombardo, il pericolo è in agguato. Si rischia l’autogol, cacciandosi in un angolo dal quale è difficilissimo uscire.
E così è stato. Ridicoli sono allora risultati i proclami di autonomia e di sensibilità territoriale di fronte all'annunciato – e poi confermato – voto contrario al referendum. Così come sterili sono state le polemiche sui costi dell’iniziativa. Sterili perché, quando si tratta di ricorrere alle procedure della democrazia diretta, cioè di consultare il popolo, non v’è costo che tenga. La democrazia non ha prezzo se si tratta di consolidarla con una procedura consensuale e partecipativa. E qui si tratta proprio di consolidarla, chiedendo al popolo lombardo se è d’accordo a procedere risolutamente lungo la strada costituzionale dell’autonomia ingaggiando un braccio di ferro con lo Stato di Roma per ottenere un congruo numero di nuove competenze legislative e amministrative. Il quesito referendario fa leva sull'istituto giuridico-costituzionale del regionalismo a geometria variabile, vale a dire sull'articolo 116, comma 3, della Costituzione, che alle regioni a Statuto ordinario virtuose riconosce l’opportunità di trattare nuove competenze con il governo di Roma sino ad avvicinarsi a un grado di autonomia paragonabile a quello delle regioni a Statuto speciale. La Lombardia ha già provato a percorrere questa strada, senza successo, nel 2007. Le trattative naufragarono perché cadde il governo di allora, ma anche perché alle spalle delle trattative non c’era il più vasto consenso dell’opinione pubblica lombarda. Per questa ragione, ricorrere alla consultazione referendaria è fondamentale: “con il consenso della gente si può fare di “tutto”, ci ammoniva un grande Maestro, Gianfranco Miglio. 
Il consenso è dunque il motore di ogni cambiamento e aprire le trattative con il Governo per ottenere maggiori competenze sulla base dell’esito di un referendum consultivo conferisce una diversa fisionomia al negoziato e alle sue prospettive. Sarà poi la Corte a valutare la qualità dell’autonomia raggiunta e imporrà al Parlamento le ratifiche costituzionali conseguenti. 
La sfida, dal punto di vista giuridico-costituzionale, è quella di valorizzare il regionalismo differenziato, chiedendo allo Stato il riconoscimento della specialità su nuove basi. È del tutto evidente, infatti, che oggi, di fronte alla più grave crisi dell’ultimo secolo, le ragioni di natura economica e sociale sono addirittura più rilevanti e più forti, valgono di più rispetto alle ragioni etniche, storiche, linguistiche, che allora – all'indomani della fine della Seconda guerra mondiale – militarono a favore del riconoscimento della specialità per le cinque regioni autonome.
Questo percorso dovrebbe premiare la “specialità” della Lombardia, che è nella natura delle cose. Ce lo ha detto la Cgia di Mestre qualche giorno fa che i cittadini lombardi sono i più tartassati del Paese (con una cifra devoluta annualmente all'erario nazionale di oltre 11mila euro) e che la Regione ha un residuo fiscale di 54 miliardi di euro, a tanto ammonta infatti il “lascito” allo Stato centrale. Non solo, ma la Lombardia è regione leader a livello europeo, aderisce ai “Quattro motori dell’Europa”, con la Baviera, il Baden Württenberg e la Catalogna, ed è l’epicentro propulsivo della Macroregione alpina. Con le sue attività economiche e produttive copre circa il 21% del Pil nazionale. E lo scorso anno un’autorevole e accreditata agenzia internazionale di rating, Moody’s, ha riconosciuto un titolo di merito creditizio alla Lombardia, superiore a quello dello Stato – ingordo e predatore – di Roma. Appunto. Ecco perché la Lombardia si merita il riconoscimento della sua “specialità”.

Articolo tratto dal sito www.lintraprendente.it