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venerdì 11 settembre 2015

MEMORIA | quell'undici settembre di Rabbia e Orgoglio

Nel giorno del 14° anniversario degli attentati dell'11 settembre 2001 a New York e Washington c'erano tanti modi per ricordare quei tragici avvenimenti.
Ho deciso di farlo citando le prime righe dell'articolo più famoso apparso sui giornali nelle settimane successive, "La Rabbia e l'Orgoglio" di Oriana Fallaci.
Uno straordinario scritto tremendamente attuale che dovremmo leggere e rileggere più spesso.

Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l’altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d’una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry. It’s good to be angry, it’s healthy. Siate arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l’ho vissuta io, quest’Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella...  
continua su http://www.oriana-fallaci.com/29-settembre-2001/articolo.html

lunedì 3 agosto 2015

#PANTHEON | Miglio, Cattaneo, Salvadori

Gianfranco Miglio, Carlo Cattaneo e Bruno Salvadori
Ascoltando le parole di Gianfranco MIGLIO mi sono appassionato a parole per troppo tempo dimenticate quali FEDERALISMO, AUTONOMIA e SECESSIONE, non solo quali meri termini accademici da studiare in qualche aula universitaria, ma come IDEALI da perseguire.

Leggendo gli scritti di Carlo CATTANEO ho compreso cosa sia la LOMBARDIA e l'orgoglio di esserne figlio e il privilegio di viverci ogni giorno.

Militando nella sezione intitolata a Bruno SALVADORI ho iniziato un percorso, che prosegue nonostante tutto ancora oggi, fatto di vittorie e sconfitte, gioie e incazzature (gli amici sanno a cosa mi riferisco...).

Ed è pensando a questi tre grandi uomini, a quello per cui hanno vissuto, che: "un'Italia sociale e nazionale, secondo la visione risorgimentale, mazziniana, corridoniana, futurista, dannunziana, gentiliana, pavoliniana e mussoliniana."

NON È IL PAESE IN CUI VOGLIO VIVERE!
NON È IL FUTURO CHE VOGLIO PER LA MIA TERRA!

giovedì 19 febbraio 2015

IDEE & RIFLESSIONI | Perché la #Lombardia dice basta

Il padre della battaglia per il referendum autonomista, appena approvato dal Consiglio Regionale, ci spiega il senso della proposta.

di Stefano Bruno Galli

Almeno tre sono i dati politici che emergono dal voto dell’altro ieri nel Consiglio regionale lombardo per l’approvazione del referendum autonomista. Anzitutto il Governatore, Roberto Maroni, s’è confermato un vero leader: ha tenuto compatta e coesa la sua maggioranza attorno a sé in una partita davvero difficile. E l’ha vinta, facendo leva sul “modello lombardo” di aggregazione del centrodestra. Un modello che a questo punto aspira a trasformarsi in una formula politico-istituzionale efficace e di successo, nell'ambito della quale la lista civica del Presidente ha svolto un ruolo non marginale (chi scrive è stato colui che, un anno fa, ha innescato il percorso e poi ha fatto il relatore in aula della proposta referendaria).

Per spuntarla ci volevano 54 voti. Ai 49 della maggioranza si sono aggiunti quelli – anche loro compatti e coesi – del Movimento 5 stelle. I grillini lombardi, vittima per tutta la giornata delle polemiche, degli strali e dei violenti attacchi dei consiglieri del Pd, non si sono persi d’animo. Hanno combattuto la loro battaglia per una procedura di fronte alla quale sono sempre stati sensibili, quella della democrazia diretta, nel nome di un significativo “lombardismo”, anteponendo cioè gli interessi dei lombardi alle rendite partitiche di posizione. Hanno assunto una posizione autonoma e indipendente rispetto alla minoranza, smarcandosi con coraggio e disinvoltura. E hanno dimostrato che la protesta non ha senso se non viene appoggiata su una proposta all'altezza della sfida.
Il terzo elemento politico emerso dal voto referendario è l’isolamento del Pd, relegato in un angolo a fare un’opposizione sterile, infruttuosa e addirittura controproducente. Certo il Pd a Roma governa. E nel segno di un ferreo centralismo cerca di riorganizzare – a colpi di maggioranza e di rissa parlamentare – l’architettura della repubblica, revocando i poteri periferici per ricollocarli al centro. Orrenda e inaccettabile riaffermazione dello Stato burocratico e accentratore. In Consiglio regionale il Pd è dimidiato perché non riesce a conciliare le ragioni di Roma con le giuste ambizioni di autonomia politica e amministrativa della Lombardia. Quando a prevalere sono gli interessi romani su quelli del grande popolo lombardo, il pericolo è in agguato. Si rischia l’autogol, cacciandosi in un angolo dal quale è difficilissimo uscire.
E così è stato. Ridicoli sono allora risultati i proclami di autonomia e di sensibilità territoriale di fronte all'annunciato – e poi confermato – voto contrario al referendum. Così come sterili sono state le polemiche sui costi dell’iniziativa. Sterili perché, quando si tratta di ricorrere alle procedure della democrazia diretta, cioè di consultare il popolo, non v’è costo che tenga. La democrazia non ha prezzo se si tratta di consolidarla con una procedura consensuale e partecipativa. E qui si tratta proprio di consolidarla, chiedendo al popolo lombardo se è d’accordo a procedere risolutamente lungo la strada costituzionale dell’autonomia ingaggiando un braccio di ferro con lo Stato di Roma per ottenere un congruo numero di nuove competenze legislative e amministrative. Il quesito referendario fa leva sull'istituto giuridico-costituzionale del regionalismo a geometria variabile, vale a dire sull'articolo 116, comma 3, della Costituzione, che alle regioni a Statuto ordinario virtuose riconosce l’opportunità di trattare nuove competenze con il governo di Roma sino ad avvicinarsi a un grado di autonomia paragonabile a quello delle regioni a Statuto speciale. La Lombardia ha già provato a percorrere questa strada, senza successo, nel 2007. Le trattative naufragarono perché cadde il governo di allora, ma anche perché alle spalle delle trattative non c’era il più vasto consenso dell’opinione pubblica lombarda. Per questa ragione, ricorrere alla consultazione referendaria è fondamentale: “con il consenso della gente si può fare di “tutto”, ci ammoniva un grande Maestro, Gianfranco Miglio. 
Il consenso è dunque il motore di ogni cambiamento e aprire le trattative con il Governo per ottenere maggiori competenze sulla base dell’esito di un referendum consultivo conferisce una diversa fisionomia al negoziato e alle sue prospettive. Sarà poi la Corte a valutare la qualità dell’autonomia raggiunta e imporrà al Parlamento le ratifiche costituzionali conseguenti. 
La sfida, dal punto di vista giuridico-costituzionale, è quella di valorizzare il regionalismo differenziato, chiedendo allo Stato il riconoscimento della specialità su nuove basi. È del tutto evidente, infatti, che oggi, di fronte alla più grave crisi dell’ultimo secolo, le ragioni di natura economica e sociale sono addirittura più rilevanti e più forti, valgono di più rispetto alle ragioni etniche, storiche, linguistiche, che allora – all'indomani della fine della Seconda guerra mondiale – militarono a favore del riconoscimento della specialità per le cinque regioni autonome.
Questo percorso dovrebbe premiare la “specialità” della Lombardia, che è nella natura delle cose. Ce lo ha detto la Cgia di Mestre qualche giorno fa che i cittadini lombardi sono i più tartassati del Paese (con una cifra devoluta annualmente all'erario nazionale di oltre 11mila euro) e che la Regione ha un residuo fiscale di 54 miliardi di euro, a tanto ammonta infatti il “lascito” allo Stato centrale. Non solo, ma la Lombardia è regione leader a livello europeo, aderisce ai “Quattro motori dell’Europa”, con la Baviera, il Baden Württenberg e la Catalogna, ed è l’epicentro propulsivo della Macroregione alpina. Con le sue attività economiche e produttive copre circa il 21% del Pil nazionale. E lo scorso anno un’autorevole e accreditata agenzia internazionale di rating, Moody’s, ha riconosciuto un titolo di merito creditizio alla Lombardia, superiore a quello dello Stato – ingordo e predatore – di Roma. Appunto. Ecco perché la Lombardia si merita il riconoscimento della sua “specialità”.

Articolo tratto dal sito www.lintraprendente.it 

domenica 18 gennaio 2015

IDEE & RIFLESSIONI | Il buonismo che ci acceca

Carenze culturali e politiche sono retoriche supplenze di identità ambigue

di Piero Ostellino
Il miserevole spettacolo che l’Italia politica e giornalistica sta dando sulla strage di Parigi e il suo seguito è figlio allo stesso tempo — salvo minoritarie e lodevoli eccezioni — di carenza culturale e di stupidità politica. Entrambe sono la retorica supplenza della nostra identità ambigua e compromissoria. Perciò, in nome della convivenza con l’Islam, auspichiamo di fondare un nuovo Illuminismo, non sapendo palesemente che ce n’è già stato uno sul quale abbiamo fondato la nostra civilisation, mentre sono loro che non lo hanno ancora fatto e che dovrebbero farlo.
Ci si è lamentati che le forze dell’ordine francesi non fossero riuscite a catturare rapidamente i due lombrosiani criminali artefici della strage parigina. Ignoriamo, o fingiamo di ignorare, che ciò era dovuto al fatto che il cosiddetto estremismo islamico naviga nel mare delle collusioni e delle complicità con l’islamismo che chiamiamo ostinatamente moderato. Che moderato non è e che si è profondamente radicato nel continente con l’immigrazione. È stupefacente che a non capirlo sia proprio quella stessa sinistra che, da noi, aveva felicemente contribuito a isolare il terrorismo delle Brigate rosse prendendo realisticamente atto che esso navigava nel mare delle complicità antiliberali e anticapitalistiche generate dal «lessico familiare» comunista. L’ignoranza che, da noi, circonda il caso francese rivela l’incapacità culturale, non solo della sinistra, di capire che cosa è stata, in Occidente, l’uscita dal Medioevo, la separazione della politica dalla religione, la cancellazione del dominio della fede religiosa sulla politica e la nascita dello Stato moderno; incapacità di capire che si accompagna a quella di prendere atto, per converso, che l’Islamismo è ancora immerso nel Medioevo ed è soprattutto incapace di uscirne.
Le patetiche invocazioni al dialogo, alla reciproca comprensione che si elevano da ogni chiacchierata televisiva, da ogni articolo di giornale, sono figlie di un buonismo retorico, politicamente corretto, incapace di guardare alla «realtà effettuale» con onestà intellettuale. Non stiamo dando prova neppure approssimativa di essere gli eredi di Machiavelli, bensì, all’opposto, riveliamo di essere i velleitari nipotini di Brancaleone da Norcia, lo strampalato protagonista di una saga cinematografica. Il miserevole spettacolo che diamo è anche la conseguenza dell’insipienza culturale di una sinistra che — perduto il rapporto organico con l’Unione sovietica, spazzata via dalle «dure repliche della storia» — non sa, o non vuole, darsi una identità. La nostra insipienza politica è generata dall’incultura. Non abbiamo perso l’occasione, anche questa volta, di mostrare d’essere un Paese da Terzo Mondo al quale, come non bastasse, un Papa pauperista detta la linea fra l’ottuso entusiasmo di fedeli che mostrano di credere ben poco nel messaggio di Cristo e molto più di essere i sudditi di una gerarchia che assomiglia a una corporazione o a un partito. Avevo definito l’Islam, in un precedente articolo, una teocrazia, aggiungendo che qualsiasi tentativo, da parte nostra, di trovare con esso una qualche forma di conciliazione si sarebbe rivelato, a causa della contraddizione logica e storica, illusorio.
Che piaccia o no al buonismo, siamo diversi. È inutile nascondersi dietro il dito di un universalismo di facciata che non regge alla prova della logica e della storia. Siamo anche migliori, avendo noi conosciuto, e praticato da alcuni secoli — a differenza di loro che sono, e vogliono restare, una teocrazia — la separazione della religione dalla politica. Pur con tutti i nostri limiti, pratichiamo l’insegnamento dell’Illuminismo e siamo entrati da tempo nella Modernità, mentre loro ne sono ancora fuori e non danno neppure segno di volerci entrare. Viviamo in regimi che praticano la tolleranza nei confronti di chi non la pensa allo stesso nostro modo o professa una religione diversa dalla nostra; siamo società che, per dirla con Isaiah Berlin, professano e rispettano la «pluralità di valori». Chi non la pensa come noi, non è considerato e trattato come un nemico. Loro ci considerano «infedeli» rispetto alle loro convinzioni e alla loro prassi; un nemico da sterminare come hanno fatto nei confronti della redazione del settimanale satirico parigino il cui torto era di aver fatto dell’ironia sul loro credo. Per noi, gli islamici sono gente che la pensa in un modo diverso. Da figlio del Cristianesimo e del liberalismo mi chiedo come si possano uccidere uomini e donne in nome del proprio dio.
Il criminale che torna sui suoi passi per finire un agente ferito e a terra è una bestia, con tutto il rispetto per gli animali. Le nostre reciproche culture sono inconciliabili ed è persino ridicolo auspicare che ci si possa incontrare almeno a metà strada. Dovremo convivere, sapendo che ci vorrebbero colonizzare e dominare attraverso quel «cavallo di Troia» che è l’immigrazione e che noi stessi incoraggiamo. Lo ripeto. Non siamo noi che dobbiamo riscoprire le nostre radici. Sono loro che devono rinunciare alle loro. Sempre che vogliano convivere pacificamente. Cosa di cui dubito.
tratto da www.corriere.it del 10 gennaio 2015

Chi è Piero Ostellino (da wikipedia)

Laureato in Scienze politiche presso l'Università di Torino, si è specializzato in sistemi politici dei paesi comunisti. Ha fondato nel 1963 il Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino e, nel 1964, la rivista “Biblioteca della Libertà” che ha diretto fino al 1970. Del Centro Einaudi è ora presidente onorario. Ha diretto dal 1990 al 1995 l’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano ed è stato membro del comitato scientifico dell’Università della Carolina del Nord. È autore di numerosi saggi di carattere storico e politico.

Dal 1967 scrive sul Corriere della Sera, giornale del quale è stato corrispondente da Mosca dal 1973 al 1978 e da Pechino nel 1979 e 1980, inviato speciale, nonché direttore dal 1984 al 1987. Attualmente ne è editorialista e titolare della rubrica settimanale “Il dubbio”.

domenica 13 luglio 2014

IDEE & RIFLESSIONI | #sinistra e #immigrazione

"La sinistra, e Renzi non fa eccezione, non ha mai voluto distinguere in modo netto - e mandando al mondo messaggi inequivocabili su questo punto - fra l’aiuto ai profughi che scappano dalle guerre e l’accoglienza agli immigrati che scappano dalla povertà. Non c’è mai stata, in fondo, troppa differenza fra il messaggio della laicissima sinistra e quello di molti esponenti della Chiesa cattolica. Si pensi a come si è affrettata la sinistra renziana a cancellare il reato di clandestinità.

È anche per questo che non è oggi possibile una politica europea dell’immigrazione. Le altre forze politiche europee, sinistre incluse, devono sempre, in questa materia, tenere d’occhio l’interesse nazionale (si ricordi con quanta durezza i socialisti spagnoli, quando erano al potere, respingevano i clandestini). La sinistra italiana, invece, è a-nazionale, portatrice di confuse aspirazioni cosmopolite, a loro volta eredità o cascami di antichi e più strutturati internazionalismi ideologici. È una sinistra che oggi potremmo definire francescana, costitutivamente incapace di tracciare una linea di confine fra «noi» e «loro» (e di ragionare quindi in termini di interesse nazionale), incapace di stabilire quanti e quali: quanti immigrati accettare, con quali caratteristiche professionali. L’idea implicita è che sono tutti figli di Dio e che fra i figli di Dio non si discrimina.

Senza contare, dell’immigrazione, un risvolto o un sottoprodotto assai inquietante e rispetto al quale la politica non potrà continuare a lungo a nascondere la testa sotto la sabbia: i califfati attuali e prossimi venturi avvicinano, anno dopo anno, il momento in cui la jihad , la guerra santa islamica, incendierà anche i territori europei, Italia inclusa."


passaggio tratto dall'editoriale "due argomenti ancora tabù" di Angelo Panebianco e pubblicato sul Corriere della Sera di oggi.

Di seguito il link cui trovare l'articolo: http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_13/due-argomenti-ancora-tabu-b71c241e-0a59-11e4-b9f9-15449e4acf0d.shtml

venerdì 4 luglio 2014

IDEE & RIFLESSIONI | l'Europa che noi vogliamo

In un epoca ormai orfana di persone in grado di elaborare un pensiero politico degno di questo nome è quantomai importante ricercare nel passato dei riferimenti certi e profondi che sappiano sempre indicare la strada giusta da percorrere.
Una di queste persone è sicuramente Bruno Salvadori, sincero amante dell'autonomismo prematuramente scomparso, di cui propongo di seguito uno scritto sull'Europa che definire "attuale" è alquanto riduttivo.

L’EUROPA CHE NOI VOGLIAMO

L'Europa unita, un sogno che ha infiammato intere generazioni di poeti, di filosofi, di storici, di uomini politici; un mito che avanza lentamente verso la sua realizzazione, sia in forma diretta e positiva, sia attraverso percorsi difficili e contraddittori.

Anche noi siamo europeisti, come tutti d'altronde. Ma appena ci si mette a discutere sulla forma, sulla funzione e sugli obiettivi di Questa Europa, emergono difficoltà e differenze. Ognuno ha le sue idee, anche noi abbiamo le nostre, condivise da molti altri popoli sparsi per l'Europa di oggi.

Noi non vogliamo un’Europa sottomessa economicamente, politicamente e militarmente ad una potenza mondiale, sia essa uno stato come lo abbiamo sempre conosciuto oppure l’establishment finanziario composto da banche e istituti finanziari mondiali, quindi, per questo esposta alle fantasie di qualche "'capo" che ne ignora addirittura la storia e la personalità.
Noi non vogliamo un’Europa degli Stati e delle banche come sono oggi costituiti, perché questo significherebbe perpetuare le divisioni attuali e distruggere il patrimonio culturale e storico di ogni comunità di base che forma la NOSTRA EUROPA.
  
La NOSTRA EUROPA

Allora, non può essere altro che un’Europa dei Popoli che tenga conto non di aride linee di demarcazione, non degli assurdi confini che separano popoli con la stessa cultura, la stessa lingua, la stessa storia, ma che consideri le diverse caratteristiche etniche dei suoi abitanti come base fondamentale della sua stessa esistenza. Ciò vuol dire che non vogliamo un massiccio inquadramento in schemi uguali per tutti, ma al contrario, una "UNITA’ NELLA DIVERSITÀ’" che permetta a tutti di lavorare e vivere nell'ambiente che egli ha contribuito a creare e che è stato il modello di vita e di sviluppo per una lunga serie di generazioni. Le drammatiche esperienze del triste periodo fascista, nazista e comunista, devono insegnarci che è impossibile sopprimere un popolo con la violenza e l'inganno o con le potentissime armi della burocrazia e della politica.

La lotta che moltissimi popoli devono affrontare ancora oggi per difendere la loro esistenza, deve sostenerci moralmente. Non siamo soli a resistere al continuo, sistematico tentativo di distruggere, poco a poco, il nostro patrimonio storico, al quale dobbiamo questa autonomia mutilata della  quale fruiamo, in qualche modo.
Queste considerazioni devono convincerci della necessità di esprimere e di proporre anche noi un concetto di Europa alla quale possiamo attribuire una qualunque denominazione (Europa dei Popoli, delle etnie, delle comunità, ecc ...) ma che deve essere una cosa concreta, sentita. Che possa trasmettersi dai popoli ai dirigenti e che non corrisponda soltanto a una convergenza d’interessi economici e politici gestiti da un vertice.

Per fare tutto ciò bisogna lasciar liberi o liberare i veri popoli. Cioè quei popoli che non possono essere divisi né dalle montagne né da altre linee di frontiera. Quelli che hanno la stessa origine. La stessa storia, la stessa lingua, le stesse tradizioni, quelli che oggi sono divisi a causa delle assurde guerre del passato e dei compromessi politici che ne furono la conseguenza.

Questa è la nostra idea di EUROPA... e questa sarà l'EUROPA di DOMANI se sapremo lottare esprimendo chiaramente la nostra idea unendoci, fin da ora, in un’azione comune a tutti quelli (e sono tantissimi!) che la pensano realmente come noi.