domenica 9 settembre 2018

SVEZIA | Alby, la piccola Bagdad dove anche la polizia ha paura a entrare. Il fallimento del "modello" immigrazionista svedese.


Sul Corriere della Sera di oggi un reportage su Stoccolma, ma in passato ne abbiamo già letti su Londra, Parigi e Bruxelles tanto per citare alcune grandi città del vecchio continente, che certifica ancora una volta il fallimento di diversi “modelli” di gestione del fenomeno dell’immigrazione e della seguente integrazione, ammesso che sia possibile, nelle varie comunità delle diverse “generazioni” dei “nuovi europei” ancora a cavallo con la vecchia patria di origine e culture tanto differenti tra loro.

Fallimento le cui ricadute negative quotidiane colpiscono sia le popolazioni “autoctone” sia quelle cosiddette “migranti”, il cui riconoscimento, purtroppo negato specialmente a sinistra, dovrebbe essere alla base di ogni seria riflessione sul tema da cui possa nascere una risposta nuova e coerente con la realtà odierna.
Alby, la piccola Bagdad svedese dove anche la polizia ha paura.Viaggio in una «no go zone» di Stoccolma, dominata da gang e spacciatori. Qui la socialdemocrazia ha fallito.
Era una bella Saab. «L’avevo comprata coi soldi che m’aveva lasciato mio padre». Una sera gliel’hanno incendiata proprio sotto casa, dietro il piazzale dell’Alby Centrum. «Ci sono stati degli scontri con la polizia». Dalla finestra, l’impiegata di banca Tove Friedriksson ha visto tutto: le proteste degli iracheni, le molotov, i lampeggianti blu, le cariche casco&manganello, gli arresti. «Non sono uscita di casa, perché ho avuto paura. Ma la mattina dopo, sì. Vado a fare la denuncia dei danni. E siccome all’assicurazione servono i dettagli, chiedo qualcosa degli arrestati». Niente nomi, dice la polizia. «E quelli dei loro avvocati?». Niente. «Ma sono stati gli arabi o gli africani?». È a quel punto che il poliziotto alza gli occhi: che razza di domanda, «l’etnia non possiamo comunicarla». Vietato chiedere: «Ho rischiato una denuncia per razzismo e xenofobia. Dichiarare che è stato un immigrato a bruciare l’auto, è un’informazione impropria. Va contro la legge».
Se domattina vi chiederete perché la Svezia alle urne ha castigato dopo un secolo i socialdemocratici della tolleranza totale, premiando la destra intollerante, Tove ha qualche risposta. Indovinate oggi per chi vota lei. Ad Alby fa sorridere l’altissima media nazionale d’accoglienza dei profughi, uno ogni cinque svedesi: in questo sobborgo alla penultima fermata della linea rossa, venti chilometri a ovest e migliaia d’anni luce dal centro di Stoccolma, gli svedesi-svedesi come Tove sono uno su dieci. L’11 per cento. Mosche bianche. Sperdute fra alveari marroni edificati negli anni delle guerre balcaniche, dei massacri africani, delle fughe afghane, delle agonie mediorientali. Diecimila abitanti, cinquemila appartamenti riservati ai rifugiati: Alby, Norsborg, Hallunda ormai li chiamano Little Bagdad, Little Mogadiscio, Little Sudan. La squadra di calcio del quartiere è il Konya, come la città dei dervisci, e ha la stessa divisa biancoverde del Konyaspor turco. Nella scuola elementare non si festeggia mai il Natale, per non discriminare la stragrande maggioranza musulmana. Nei fast food non si trova il bacon. E se negli anni 80 c’era un asilo no gender fiorito dalla pedagogia egualitaria e socialdemocratica, di quelli che proibiscono di fare distinzioni discriminatorie e politicamente scorrette fra maschietti e femminucce, ora in piscina si nuota separati per sesso e le mamme ci entrano velate. La disoccupazione è al 70 per cento, contro la media nazionale del sei. Un tempo, qui si veniva a fare il bagno sulle rive dell’Albysjon, a pedalare nei boschi, a vedere dove aveva la villa il signor Ericsson, quello dei telefonini.
Oggi, Alby è stata dichiarata una delle otto «no go zone» vulnerabili del Paese, gang e spaccio, dove la sera i pompieri non sempre vanno se li chiamano e anche i poliziotti stanno all’occhio: «L’auto di servizio non dobbiamo mai posteggiarla lontana — dice l’agente Roger Kampe, in servizio da sette anni —, perché te la trovi danneggiata. E l’ordine è di girare sempre in due o tre, mai da soli». In un garage, a marzo è stato scoperto un deposito d’esplosivo, «roba da professionisti». Sugli ascensori dei palazzoni, le scritte in arabo inneggiano a qualche guerra santa. Un ragazzino di 16 anni è stato accoltellato in pieno giorno, un mese fa, davanti al centro commerciale: «C’erano almeno trenta testimoni, nessuno ha visto nulla».
Ad Alby, governano da sempre le sinistre. Ma stavolta non si sa. I postfascisti di Svezia Democratica, annunciati vincitori di queste elezioni politiche, qui non mettono piede. Non si vede un manifesto di Jimmie Akesson, il Salvini che vuole rispedire a casa i migranti e sull’esistenza di posti così sta costruendo la sua fortuna politica. L’imam non ha voglia di parlare coi giornalisti, da quando l’hanno messo in mezzo con una telecamera nascosta (si vede un candidato locale della sinistra garantire tremila voti sicuri a un alleato di lista, «alla preghiera l’imam convincerà i musulmani a votare te, e tu in cambio gli costruirai la nuova moschea...»: tutta acqua al mulino di Jimmie lo spaventastranieri). Venerdì sera il sobborgo era mezzo deserto, tutti a guardare Jimmie Akesson nell’ultimo confronto elettorale in tv. E sentirlo parlare di posti come Alby. Parole pesanti: «Lo sapete perché quella gente non trova lavoro? Perché non s’adattano alla Svezia. E non sono svedesi». Urla, fischi, buuu. Nessuno ad Alby voterà mai Jimmie. «Ma qui siamo in Medio Oriente», dice Tove. E fuori di qui c’è una Little Svezia che non vuole diventare una grande Bagdad.

domenica 2 settembre 2018

L’AUTONOMIA ORMAI E’ VICINA, MA PER BOICOTTARLA LE INVENTANO TUTTE


Articolo di Stefano Bruno Galli, pubblicato su Libero di oggi, nel quale replica alla petizione contro l'autonomia di Lombardia e Veneto lanciata da Gianfranco Viesti.

Nel 1950 – vale a dire due anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana e vent'anni prima della nascita delle Regioni a statuto ordinario – Gianfranco Miglio scriveva Dobbiamo mantenere, per amor di simmetria, gli stessi controlli tutori e le medesime bardature burocratiche sulla Lombardia e sulla Basilicata? Oppure dobbiamo applicare all'amministrazione pubblica gli stessi criteri pratici che si adottano anche nella più umile azienda privata, ove il collaboratore inesperto viene strettamente controllato e quello capace lasciato invece libero della propria iniziativa? Dobbiamo considerarci una specie di convoglio, costretto per l’eternità a camminare alla velocità ridotta della nave meno efficiente, oppure dobbiamo consentire alle regioni più progredite di sviluppare le proprie capacità e le proprie risorse di iniziativa, nell'interesse evidente dell’intera comunità nazionale?

Con la lucidità e l’incisività che gli erano proprie, il professore lariano metteva a fuoco – e con larghissimo anticipo rispetto alla riforma costituzionale del 2001 – l’essenza del regionalismo differenziato. Non parliamo – per carità, ma anche per amore di verità e di rigore teorico . di “federalismo” né di “secessione”, come fanno, assai impropriamente, i quaranta studiosi chiamati a raccolta dal professor Gianfranco Viesti, che hanno promosso la petizione 
No alla secessione dei ricchi. Una petizione che, sull'onda della più becera demagogia anti autonomista, ha raccolto quasi quattromila adesioni. 

I RENDIMENTI

Le trattative intavolate da Lombardia e Veneto – a seguito dei referendum consultivi dello scorso 22 ottobre – e dall'Emilia Romagna, che si è lanciata sulla scia dell’azione delle prime due regioni, si collocano nell'alveo della più stretta e rigorosa lealtà costituzionale. Si tratta di un atto di grande responsabilità istituzionale, finalizzata a sfruttare l’opportunità offerta dall'articolo 116 – al terzo comma – della Costituzione. Deliberatamente ispirato al federo-regionalismo spagnolo, il regionalismo differenziato – costituzionalizzato con la riforma del 2001 – mira a riconoscere a ogni regione dei margini di autonomia coerenti con la sua fisionomia dal punto di vista economico e produttivo, fiscale e culturale. Anche perché il regionalismo ordinario dell’uniformità – praticato dal 1970 in qua – ha creato davvero dei danni molto gravi al paese. Con l’obiettivo di garantire eguali diritti e tutele a tutti i cittadini della Repubblica, ha fatto emergere con chiarezza i differenziali di rendimento istituzionale dei territori. Nel paesaggio del regionalismo italiano, infatti, sono sotto gli occhi di tutti quelle realtà che hanno fatto un uso virtuoso dell’autonomia politica e amministrativa, per quanto – sic stantibus rebus – assai limitata. Hanno incrementato la democrazia di prossimità, ampliando i diritti di welfare e la qualità dei servizi erogati a beneficio dei cittadini, utilizzando altresì le risorse secondo criteri di elevata produttività e alta redditività. E’ quindi giusto premiare queste realtà con maggiori margini di autonomia, nell'interesse esclusivo del Paese. Non v’è nulla di male, anzi.

NUOVE MATERIE

La Costituzione prevede che le regioni in pareggio di bilancio possano chiedere – nel negoziato con il governo – sino a 23 nuove materie: tre competenze esclusive dello Stato e tutte e venti le competenze concorrenti. Non c’è nessuna controindicazione se la Lombardia – regione che ha dato i natali a Carlo Cattaneo e Gianfranco Miglio, ma anche a Giuseppe Ferrari e pure a Gianni Brera – le chiede tutte e 23, con le relative risorse per gestirle. In questo modo sgrava lo Stato di alcune pesanti incombenze , nella prospettiva di erogare servizi – per il proprio territorio – con un minore costo e una maggiore qualità, come comprovato dalle principali agenzie internazionali di rating da parecchi anni in qua. Evitiamo – per piacere – di confondere le idee e di fare illusioni al residuo fiscale, che non è oggetto del negoziato. Non confondiamo le acque, come fanno – pretestuosamente – Viesti e i suoi amici. Non è una questione di orgoglio nordista versus orgoglio sudista. Se la mettiamo su queste basi, ancora una volta perdiamo una grande occasione. La trattativa intavolata da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, ha innescato infatti un vero e proprio effetto-domino, coinvolgendo altre regioni – anche del Sud – che vedono nel modello federo regionalista, fondato sul regionalismo differenziato, un’importante opportunità di sviluppo per il Paese, ricomponendo la sua unità su nuove basi, più aderenti alla sua fisionomia storica e culturale, economica , produttiva e fiscale. Con buona pace dei sottoscrittori della petizione lanciata dal professor Viesti.

sabato 1 settembre 2018

No alla "Secessione dei ricchi", dicono i PARASSITI...

“Il Veneto, la Lombardia e sulla loro scia altre undici Regioni si sono attivate per ottenere maggiori poteri e risorse. Su maggiori poteri alle Regioni si possono avere le opinioni più diverse. Ma nei giorni scorsi è stata formalizzata dal Veneto (e in misura più sfumata dalla Lombardia) una richiesta che non è estremo definire eversiva, secessionista.”
Questo il titolo e l’incipit di una petizione, dal titolo "NO ALLA SECESSIONE DEI RICCHI", che potete trovare su change.org, promossa da tale Gianfranco Viesti, che chiede tra l’altro:
“che nessun trasferimento di poteri e risorse a una Regione sia attivato finché non siano definiti i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" (art. 117, lettera m della Costituzione); e che il trasferimento di risorse sulle materie assegnate alle Regioni sia ancorato esclusivamente a oggettivi fabbisogni dei territori, escludendo ogni riferimento a indicatori di ricchezza.”
Tradotto in linguaggio corrente i “parassiti”, come li definirebbe Gianfranco Miglio, non vogliono che la Lombardia ed il Veneto, sulla scorta dei referendum del 22 ottobre 2017, ottengano maggiore autonomia e mantengano a servizio dei propri cittadini una quota maggiore del residuo fiscale che ogni anno lombardi e veneti creano.
È quantomai evidente come lorsignori temano che possa finalmente “finire la pacchia” cit.

Un motivo in più per proseguire nella battaglia autonomista iniziata con il referendum promosso in Lombardia da Roberto Maroni e Gianni Fava, e poi proseguita con Attilio Fontana e Stefano Bruno Galli.

Dimenticavo...

Scorrendo l’elenco delle adesioni alla petizione il primo nome che compare è quello di tale Diego Fusaro, autoproclamato filosofo contemporaneo, alquanto e malauguratamente seguito da molti amici leghisti.
Per quanto mi riguarda ennesima conferma di quanto un idiota...