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venerdì 11 settembre 2015

MEMORIA | quell'undici settembre di Rabbia e Orgoglio

Nel giorno del 14° anniversario degli attentati dell'11 settembre 2001 a New York e Washington c'erano tanti modi per ricordare quei tragici avvenimenti.
Ho deciso di farlo citando le prime righe dell'articolo più famoso apparso sui giornali nelle settimane successive, "La Rabbia e l'Orgoglio" di Oriana Fallaci.
Uno straordinario scritto tremendamente attuale che dovremmo leggere e rileggere più spesso.

Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l’altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d’una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry. It’s good to be angry, it’s healthy. Siate arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l’ho vissuta io, quest’Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella...  
continua su http://www.oriana-fallaci.com/29-settembre-2001/articolo.html

domenica 13 luglio 2014

IDEE & RIFLESSIONI | #sinistra e #immigrazione

"La sinistra, e Renzi non fa eccezione, non ha mai voluto distinguere in modo netto - e mandando al mondo messaggi inequivocabili su questo punto - fra l’aiuto ai profughi che scappano dalle guerre e l’accoglienza agli immigrati che scappano dalla povertà. Non c’è mai stata, in fondo, troppa differenza fra il messaggio della laicissima sinistra e quello di molti esponenti della Chiesa cattolica. Si pensi a come si è affrettata la sinistra renziana a cancellare il reato di clandestinità.

È anche per questo che non è oggi possibile una politica europea dell’immigrazione. Le altre forze politiche europee, sinistre incluse, devono sempre, in questa materia, tenere d’occhio l’interesse nazionale (si ricordi con quanta durezza i socialisti spagnoli, quando erano al potere, respingevano i clandestini). La sinistra italiana, invece, è a-nazionale, portatrice di confuse aspirazioni cosmopolite, a loro volta eredità o cascami di antichi e più strutturati internazionalismi ideologici. È una sinistra che oggi potremmo definire francescana, costitutivamente incapace di tracciare una linea di confine fra «noi» e «loro» (e di ragionare quindi in termini di interesse nazionale), incapace di stabilire quanti e quali: quanti immigrati accettare, con quali caratteristiche professionali. L’idea implicita è che sono tutti figli di Dio e che fra i figli di Dio non si discrimina.

Senza contare, dell’immigrazione, un risvolto o un sottoprodotto assai inquietante e rispetto al quale la politica non potrà continuare a lungo a nascondere la testa sotto la sabbia: i califfati attuali e prossimi venturi avvicinano, anno dopo anno, il momento in cui la jihad , la guerra santa islamica, incendierà anche i territori europei, Italia inclusa."


passaggio tratto dall'editoriale "due argomenti ancora tabù" di Angelo Panebianco e pubblicato sul Corriere della Sera di oggi.

Di seguito il link cui trovare l'articolo: http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_13/due-argomenti-ancora-tabu-b71c241e-0a59-11e4-b9f9-15449e4acf0d.shtml

lunedì 23 luglio 2012

Il Vostro.it | Madrid affossa la Catalogna e il sistema delle autonomie

articolo tratto dal sito www.ilvostro.it

Come si salverà uno dei quattro motori d'Europa? Il regime di autonomia “comune” è alla base del crac catalano. Il Principat paga molto in imposte, ma riceve poco. Passare al regime “forale” o dire addio alla Spagna? Intanto la gente marcia su Bruxelles

| Marco Gargini

BARCELLONA (Catalogna) – 41,8 miliardi di euro. È l’ammontare del deficit della comunità autonoma della Catalogna che adesso rischia di dover chiedere aiuto all’“odiata” Madrid. La capitale spagnola potrebbe addirittura arrivare ad una sorta di commissariamento di Barcellona ed è proprio per questo che laGeneralitat sta cercando una via alternativa al Fondo autonomo di liquidità che potrebbe consentire a Madrid di andare troppo a fondo nella gestione dei conti catalani.

AUTONOMIA FALLIMENTARE? – Sappiamo benissimo che la Spagna sta attraversando un periodo folle di crisi e siamo consapevoli che Madrid non gode assolutamente della fiducia sui mercati. Ma la disfatta di Madrid sta affossando uno dei sistemi di autonomie che vige in Spagna. Nel Paese iberico ci sono due tipi di autonomie: quindici regioni abbracciano il regime “comune” (tra cui la Catalogna) e due quello “forale” (Paesi Baschi e Navarra). Il regime forale permette alla comunità autonoma di riscuotere (quasi) tutte le imposte, concedendo alle due comunità basche una determinata indipendenza fiscale. Non a caso, Euskadi (Paesi Baschi) è tra le comunità più virtuose e il suo debito è classificato A da Standard & Poor’s. Quello comune, invece, fa riscuotere alla comunità autonoma solo una parte delle imposte. La Catalogna, per esempio, dipende dai pagamenti mensili che giungono a fine mese da Madrid. Non a caso, le comunità che adesso soffrono maggiormente la crisi sono quelle che non sono pienamente autonome fiscalmente parlando.

LES VAQUES CATALANES – La Catalogna potrebbe essere paragonata a una vacca. Madrid ha attinto talmente tanto latte dal Principat che adesso, dalle sue mammelle, non fa altro che uscire sangue. Come può una regione con un pil di 200,3 miliardi di euro all’anno (pari a più di un sesto dell’intero pil spagnolo) accumulare un debito di 41,8 miliardi, pari al 20,7%? La risposta sta proprio nel sistema di autonomia catalana, assoggettata agli emolumenti provenienti da Madrid. Non è dato sapere quanto la Catalogna abbia dato a Madrid e quanto dalla capitale dello Stato spagnolo abbia ricevuto, ma le parole di Andreu Mas-Colell, ministro dell’Economia della Generalitat, che ha rilasciato un’intervista a La Repubblica, sono lo specchio dello squilibrio accumulato soprattutto nell’ultimo quarto di secolo. In termini di imposte, la Catalogna «dà più di quanto riceve: ha un bilancio fiscale negativo che si mantiene stabile da 24 anni. Squilibri accumulati nel tempo fra le entrate, insufficienti, e le uscite, strutturalmente rigide». La crisi della Catalogna sta tutta in questa frase. È la rigidità di Madrid che sta ingolfando il motore Catalogna che, insieme a Rodano-Alpi, Lombardia e Baden-Wüttemberg, è uno dei quattro motori dell’Unione Europea. Non si può spremere una vacca per sempre e la vacca catalana si trova a dover fronteggiare due debiti: il proprio, che non è dovuto espressamente a proprie negligenze come, invece, nel caso della Sicilia, e quello spagnolo, visto che i catalani pagano le tasse a Madrid e solo in piccola parte le rivedono a Barcellona. Il freno alla Catalogna lo danno i mercati sui quali si affaccia la Spagna tanto che la pressione sulla tesoreria del Principat è molto forte.

VIE DI USCITA – Poco meno di un anno fa, Barcellona, in previsione delle difficoltà crescenti per le comunità autonome, aveva chiesto a Madrid di prevedere la creazione di hispanobonos, dei titoli specifici per finanziarsi sul mercato. Le comunità autonome si sarebbero, però, accontentate di un qualsiasi meccanismo per condividere il debito. Ma Madrid ha risposto picche, amplificando il deficit di alcune comunità. Mentre València ha già chiesto di accedere al Fondo autonomo di liquidità, Barcellona sta temporeggiando per capire quali siano le condizioni dettate da Madrid. «Non rinunceremo all’autogoverno» è il motto che da più parti viene rilanciato a Barcellona e zone limitrofe. La Catalogna proverà a uscire dalla crisi con le proprie forze, come ha sempre fatto, e, infatti, Artur Mas, il presidente della Generalitat, sta meditando di chiedere l’intervento di Bruxelles per ottenere da Madrid il sistema forale.

INDIPENDENZA – Se il sistema forale, quello che più rappresenta l’essere artefice del proprio destino, rappresenta la manna per il sistema delle autonomie in Spagna, è chiaro e lampante che l’indipendenza lo sia ancora di più. La domanda da porsi è la seguente: può una regione indebitata come la Catalogna reggere l’impatto dell’indipendenza? Secondo lo scrivente sì perché smetterebbe di andare a tappare i buchi delle altre comunità autonome per concentrarsi sulla propria falla, che è la conseguenza della poca attenzione e dei pregiudizi fiscali che Madrid ha riservato nei confronti di Barcellona. E con un pil pro capite superiore anche a quello italiano non dovrebbe correre troppi pericoli. Non è un caso che da tutta la Catalogna molte persone si stiano organizzando per raggiungere a piedi Bruxelles per chiedere, il prossimo 11 settembre, l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna.

martedì 29 maggio 2012

le OPINIONI de L'INVIATO | alla ricerca di una politica in grado di affrontare la questione settentrionale

articolo tratto da www.inviatoquotidiano.it


Chi si occuperà della questione settentrionale? Questa domanda sembra destinata a rimanere senza risposta. La grave crisi della Lega e la fragilità del PDL a trazione berlusconiana sembrano riservare al Nord un futuro con scarsa rappresentanza politica. Eppure il fortissimo tessuto imprenditoriale lombardo veneto non desiste, a maggior ragione nel momento dell’inasprimento fiscale ad opera del governo Monti. L’aria che si respira nell’area più efficiente e produttiva del paese è pesante, ma gli imprenditori disperati sono molti meno di quelli arrabbiati e pronti a rivendicare più forte di prima il valore del loro lavoro, dei loro prodotti. Colpisce del resto la pregnanza addirittura educativa della protesta, sempre meno silenziosa: come aiutare i propri figli a restare attaccati al lavoro, all’azienda di famiglia, in un contesto che premia i pigri e punisce sistematicamente i virtuosi?

E allora capita di sentir dire che il Nord sarebbe in grado di accollarselo tutto il debito del paese, e ripagarlo in venti trent’anni. Ma a condizione che le tasse rimangano qui, vicine a chi le paga, con chiara e controllabile destinazione. Diciamo la verità: non fa una grinza. E la sola idea che la politica pensi di poter uscire dalla palude in cui si trova evacuando questa domanda, derubricandola a degenerazione egoistica, fa un po’ rabbia. L’esperienza lombarda dimostra che, laddove siano garantiti spazi reali di autonomia politica ed amministrativa, si può modificare radicalmente il modello di governo del territorio, recuperando alla società civile ed alla sua creatività spazi di libertà ed azione enormi. E ne guadagnano tutti in termini di benessere, pace sociale, speranza. Ma senza quegli spazi di autonomia politica ed amministrativa, nemmeno le più brillanti proposte di modernizzazione di governo della cosa pubblica (liberalizzazioni, privatizzazioni e storie di sussidiarietà varia) potranno realizzarsi.

Molta attesa desta il dialogo degli ultimi mesi tra Berlusconi e Montezomolo. Ma la domanda lacerante è: di che parlano? Si tenta di cambiare il volto politico dei moderati? Il volto di Berlusconi non funziona più, ma funzionano i suoi voti. Il volto di Casini risulta meno provocatorio, ma l'ultimo delfino di Arnaldo Forlani vanta una dote piuttosto scarsa di voti ed un'immagine decisamente poco innovativa. Montezemolo: e i contenuti quali sono? Gli stessi del '94, con la cravattina nuova a quanto pare. Ma questo basterà a realizzare quanto in quasi vent'anni non si è riusciti a fare?

Il Nord operoso, rimesso a dura prova dalle tasse del governo tecnico, sembra chiedere un nuovo metodo di governo, non più soltanto un ottimo programma. Il messaggio politico plausibile sembra essere solo questo: una società forte e volenterosa ha bisogno di uno Stato leggero ed efficace. La precondizione perché questo accada è che non si tenti di consolare il Nord, ma lo si ponga al centro dell’agenda politica.

mercoledì 23 novembre 2011

UMBERTO BOSSI | discorso sull'europa

"L’idea nata nel dopo-guerra per scongiurare altre guerre tra Stati Europei sta ora partorendo un mostro che non genererà né democrazia, né stabilità, né vantaggi economici per tutti. Non può generare democrazia perché il suo parlamento non legifera: è l’Europa dei grandi capitalisti. Il popolo, gli artigiani, gli imprenditori, i cittadini non ci sono oggi né tantomeno ci saranno domani, perché non potrà mai nascere un’Europa politica".

"Comunque la si veda, resta il fatto inconfutabile che l’Europa è solo una difesa del mercato europeo, un protezionismo quindi, che come tutti i protezionismi favorisce le grandissime imprese, i grandi affaristi, che hanno come interlocutore lo Stato nazionale. Sono gli stessi poteri che adesso vivono grazie ai soldi dello Stato di cui sono i padroni e che fanno l’Europa monetaria per essere ancora più padroni dello Stato nazionale".

"Le leggi finanziarie degli Stati si ridurranno ad un semplice fax inviato da Bruxelles, dal Consiglio d’Europa, terminale europeo delle cento grandi famiglie europee. Con l’ingresso in Europa, l’Italia non avrà più a sua disposizione la leva monetaria, cioè se gli mancano i quattrini non potrà più stampare altri titoli di stato, per favorire l’economia non potrà più svalutare la moneta, perché gli resterà solo la leva fiscale e i quattrini dovrà toglierli maledettamente e subito dalle tasche dei cittadini, evidentemente aumentando la pressione fiscale".

Umberto Bossi,
sabato 28 marzo 1998
Congresso Federale della Lega Nord

mercoledì 10 agosto 2011

in ricordo di Gianfranco MIGLIO, a 10 anni dalla scomparsa.

Nel decimo anniversario dalla morte del Prof. Gianfranco Miglio (11 gennaio 1918 - 10 agosto 2001) ecco un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera il 28 dicembre 1975.  
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Chi vuole governare il paese riconosca il Nord

Il  presidente della Regione Lombardia in una intervista concessa al settimanale Il Mondo, mi ha recentemente chiamato in causa a proposito dell’idea di una “Padania” politico-amministrativa. È sostanzialmente vero che io pensi a questa prospettiva, e da molto tempo: dagli anni della Resistenza e dall’immediato secondo dopo-guerra, quando mi interessavo al movimento federalista “esterno” che si esprimeva nel foglio Il Cisalpino.
Ma ciò che già allora mi differenziava da quegli amici - e che mi distingue ora da eventuali compagni di strada - è un divario fondamentale di atteggiamento: io non mi preoccupo affatto di sapere se tale soluzione del “caso italiano” si debba o non si debba realizzare, se cioè sia giusta, bella, buona, e magari “progressiva”: penso sol-tanto che sia inevitabile. Nel senso che, se qualcuno vorrà governare questo Paese, non potrà mai farlo seriamente senza riconoscere che esso non fu mai né sarà mai - per una folla di ragioni - uno “Stato” unitario. Se in certi momenti l’amministrazione “nazionale” è sembrata funzionare, ciò è accaduto perché alcune parti del Paese erano politicamente “in letargo” e nelle altre le forze economico-sociali si autoregolavano, dando luogo - inconsapevolmente e quindi anche casualmente - ad un equilibrio la cui stabilità sarebbe entrata in crisi non appena fossero diventati necessari interventi eteroregolanti.
Negli anni Cinquanta e nella prima metà dei Sessanta, con una parte dei miei allievi, promossi e condussi una serie di ricerche nel campo della storia delle istituzioni, e sopra tutto della storia amministrativa italiana (ricerche a cui contribuirono poi studiosi di ogni scuola: per esempio anche i Ragionieri) dalle quali fra le molte altre uscirono dimostrate tre cose:
1) che le differenze “ereditarie” (e quindi non riducibili) - geoclimatiche, economico-sociali, istituzionali eccetera - fra le diverse grandi regioni della penisola, erano molto maggiori di quelle su cui si basava la separazione fra i principali Stati europei;
2) che la gestione unitaria dello Stato italiano era sempre consistita in un equivoco: cioè in un complesso di norme ed istituti solo formalmente “nazionali”, ma in realtà interpretati ed applicati, in ognuna di quelle grandi-regioni, in modi e misure tanto diversi da togliere ogni valore alla apparente omogeneità;
3) che le “Regioni” del Titolo V della Costituzione erano unità amministrative la cui dimensione corrispondeva tutt’al più alle esigenze dello Stato ottocentesco: tant’è vero che erano state “inventate” dai tecnici di governo liberali, specialmente piemontesi, tra il 1859 e il 1865: nel 1948 erano già largamente anacronistiche.
Queste conclusioni furono generalmente accettate dagli specialisti: ma nessuna forza politica si curò di trarre le conseguenze che ne derivavano sul piano operativo. Senonché nel frattempo, sempre sulla stessa linea di considerazioni, sono venute a galla due altre “verità” con le quali sarà davvero difficile evitare di fare i conti.


La prima riguarda il livello di “degrado” dell’amministrazione pubblica centrale italiana: per chi s’intenda un po’ di questi problemi è ormai chiaro che qui da un pezzo è stato ormai superato il punto del “non ritorno”. Nessuno - neppure la frazione più seriamente auto-ritaria dell’attuale classe politica italiana, e cioè i comunisti - riuscirà a restituire credibilità ed efficienza all’apparato amministrativo centrale di questo Paese. Tale apparato potrà sopravvivere soltanto se (a parte la politica estera e la connessa difesa) abbandonerà ogni illusione di poter gestire il governo-amministrazione in senso stretto, e si limiterà ad assumere (e a svolgere realmente) funzioni di coordinamento e di direzione.
L’impossibilità di restaurare l’antico modello di governo centrale dipende anche, e in misura essenziale, dalla seconda “verità” emergente: l’aumento accelerato dei servizi e delle prestazioni pubbliche, il continuo accrescersi dei rapporti fra i singoli e fra i gruppi, l’incessante differenziarsi delle esigenze e delle situazioni, rendono sempre più difficile anche alle più efficienti compagini statuali, continuare a gestire “direttamente” il potere, nelle sue diverse manifestazioni. Questo mutamento sfocia nella contemporanea ricerca di una “minore” dimensione ottimale su cui reimpiantare i ruoli tradizionali dello Stato, e di un tipo di funzione coordinatrice (da attribuire a livelli superiori, compreso quello dell’ex-Stato) rispetto al quale il vecchio modello “federale” appare solo un precedente storico. 

Alla luce di tale sviluppo, se lo Stato italiano appare troppo grande per governare, la Regione è invece troppo piccola. Si dirà che i politici hanno ben altro da fare che ascoltare le diagnosi dei politologhi: ma io sono fermamente convinto che quando il gran polverone sollevato sul “caso italiano” si sarà diradato, si dovrà riconoscere che questo Paese è ingovernabile per le ragioni strutturali di cui mi sono occupato fin qui. 

Contro questa prospettiva sono state sollevate, tra le altre, due principali obiezioni: una esplicita, l’altra meno. Comincio dalla prima. Si pensa che una aggregazione delle regioni padane (resa ovvia dalla omogeneità geo-politica ed economico-sociale) implichi un disinteresse, o addirittura una ostilità per il Meridione e per i suoi tuttora irrisolti problemi. Pensieri di questo genere avrebbero una parvenza di legittimità se la politica fino ad ora sviluppata a livello nazionale nel confronti degli abitanti del Sud italiano, fosse da questi ultimi giudicata complessivamente soddisfacente. Il che non è (come tutti sanno). In tali condizioni i “meridionalisti”, quando insorgono contro il progetto di aggregazione “padana”, hanno tutta l’aria di difendere non gli interessi dei loro rappresentati ad un autonomo sviluppo, ma soltanto le abitudini, i privilegi e le strutture clientelari in cui si è decomposta fin qui la così detta “politica per il Sud”.

Allora il ragionamento da fare è questo: non è forse praticamente più produttivo e formalmente più corretto, chiedere alle Regioni in cui il Meridione attualmente si disarticola di raggrupparsi stabilmente per definire prima e poi gestire, in modo finalmente davvero autonomo, le scelte relative al tipo di avvenire verso cui tendere, tutti insieme, classi dirigenti e popolazioni del Sud?
Considerata la pietosa esperienza dello Stato “nazionale-unitario” - cioè dell’ “ammucchiata”, che, lungi dal contrastare il tradizionale clientelismo, lo ha ad-dirittura esteso al resto del Paese - l’unica esperienza alternativa da tentare è quella costituita dalla consapevole integrazione tra grandi aggregazioni geo-economicamente omogenee: il Nord, il Centro, il Sud (più le due isole autonome). 

E vengo alla seconda obiezione. Si dice: il presidente Fanti (Guido Fanti, allora governatore dell’Emilia Romagna, ndr) ha lanciato l’idea della “Padania” perché i comunisti controllano già - di fatto o in prospettiva - la maggioranza delle Regioni che in quel progetto dovrebbero essere implicate. Può darsi che sia così. Ma non credo affatto che una attesa di questo genere sia destinata a risolversi in un facile trionfo del “modello orientale”. Io sono convinto che l’ “eurocomunismo” (cioè l’espansione verso ovest attraverso sostanziali modificazioni del tipo di assetto economico-politico in vigore all’Est) costituisca uno sviluppo inevitabile. Ma credo anche che si tratterà di una trasformazione faticosa, tormentosa e pericolosa (per tutti: a cominciare dai comunisti): una trasformazio-ne che troverà i suoi momenti decisivi proprio là dove estesi ceti medi, abituati ad un livello di vita continuamente crescente, sembrano pronti a difendere il controllo di una parte dei mezzi di produzione come un diritto originario e non ad accettarlo come una graziosa concessione del potere politico. 

Una situazione sociale di questo genere si ha proprio nel “poligono padano”: non certo nel Sud, dove, se non s’aggrega presto una classe politica locale degna di questo nome e sopra tutto autonoma, l’instaurazione di un regime comunista del tipo bulgaro (tanto per fare un esempio), ad un certo pun-to, potrebbe non essere oggettivamente poi molto difficile. Certo, si tratta di rompere con venerate tradizioni sentimentali; ma io credo davvero che sia ora di pensar meno all’“Italia” (che è un’astrazione) e piuttosto invece agli “Italiani”, che sono una realtà concreta. Del resto nelle buone famiglie di una volta, quando le cose andavano male, che cosa si faceva? Il genitore “responsabilizzava” i figli mandandoli a cercare individualmente quella fortuna che, stando tutti in casa, non avevano saputo o potuto trovare.

giovedì 28 luglio 2011

DIVERSITA'

 Il Pd non è un partito che prende tangenti, semmai le riceve.

citazione di JENA@lastampa.it

sabato 16 luglio 2011

DISCARICA di AMIANTO: Intervista del Presidente Salini a "La Provincia"

"La Provincia" di oggi.
Condivido quanto espresso dal Presidente Salini nell'intervista, oltre a quello che è emerso nella riunione di maggioranza di stamane a Crema.

giovedì 30 giugno 2011

PAULLESE: Un passo avanti grazie alla Lega Nord

dal sito www.cremaonline.it

Paullese tra le opere di interesse nazionale.
Il raddoppio potrà essere rifinanziato con i mutui non attivati per altre opere pubbliche.

Roma - La notizia tanto attesa è finalmente arrivata, la Paullese è stata inserita tra le opere pubbliche di interesse nazionale. L'onorevole Silvana Comaroli ha sottolineato che si tratta di un ottimo risultato "conseguito anche grazie all’appoggio del Partito Democratico e dell'onorevole Pizzetti".

Mutui inevasi
"Le risorse per riqualificare la Paullese - prosegue l'onorevole Comaroli - saranno reperite dai mutui che non sono stati attivati per altre opere pubbliche d'interesse nazionale e che quindi potranno essere utilizzate per finanziare altre opere considerate improcrastinabili, fra cui con precedenza assoluta, proprio la nostra”.


Opera strategica
Grazie alla Lega Nord - prosegue l'onorevole Comaroli - la Commissione Ambiente ha affermato l'importanza dell'opera fondamentale per la viabilità del sud-est della Lombardia, un'opera strategica come lo stesso viceministro leghista Roberto Castelli l'ha definita nel corso della discussione”.


Sinergia
"Ora - aggiunge il presidente della Provincia di Cremona Massimiliano Salini - si apre la possibilità concreta di riavere i finanziamenti tramite i mutui non attivati per altre opere pubbliche. Si tratta di un passaggio fondamentale all’interno di un percorso su cui tutte le istituzioni e le forze politiche del territorio hanno lavorato in sinergia. Un ottimo risultato, che ci porterà a un impegno ancor più costante nel prossimo periodo per monitorare il completamento dell’iter avviato".

venerdì 29 aprile 2011

LIBIA. Ha ragione la Lega, è un intervento sballato dall’inizio

articolo di Fausto Biloslavo tratto dal sito www.ilgiornale.it

Sull’incerta e confusa guerra in Libia la Lega ha ragione, anche se ciurla nel manico per interessi di bottega. Non sono certo un pacifista, ma l’avventura dell’Italia nel conflitto libico è apparsa sballata fin dall’inizio. Una «guerra» parallela della propaganda e della disinformazione ha influenzato la percezione della realtà sul terreno. Il colonnello Gheddafi era stato dato per spacciato, ma poi ci siamo resi conto di aver venduto la pelle dell’orso troppo presto.
Sbagliavamo ad accoglierlo a Roma, come se fosse la Madonna pellegrina del Nord Africa e abbiamo sbagliato dopo a mollarlo dalla sera alla mattina. Prima delle bombe potevamo almeno giocare la carta dell’ultima ora con un blitz del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, sotto la tenda da beduino per convincere Gheddafi a trovare una soluzione indolore, in nome della vecchia amicizia. Il Colonnello poteva anche non sentir ragioni, ma l’Italia ci faceva un figurone. Ed il governo avrebbe potuto ulteriormente «giustificare» un intervento ben poco sentito dall’opinione pubblica.
Inutile girarci attorno: «Questa è una guerra che quasi nessuno voleva e noi meno di tutti. Gli americani si sono sfilati e l’Italia prima ha concesso un dito, poi una mano e adesso bombardiamo come gli altri. Speriamo almeno che da questo guazzabuglio riemergano i nostri interessi nazionali». Non lo dice Gino Strada, ma il generale Mario Arpino, ex capo di Stato maggiore della Difesa.
Al momento il risultato è che i rubinetti del gas verso l’Italia sono chiusi e le concessioni petrolifere dell’Eni nella Sirte rimangono a rischio, perchè nella zona corre la linea del fronte. Non solo: Gheddafi ha aperto i cancelli ai clandestini diretti a Lampedusa. Il Colonnello è ancora al potere e controlla metà del Paese, a parte Misurata sotto assedio e qualche altro focolaio. Per non parlare dei 700 milioni di euro che secondo la Lega ci costerebbe questa imprevedibile guerra. Una cifra probabilmente esagerata, ma in tempi di crisi e con diecimila soldati impegnati all’estero, un altro conflitto proprio non ci serviva.
Dopo i radar ci siamo impegnati a colpire anche carri armati, caserme, arsenali per non far meno degli alleati. Qualcuno dovrà spiegarci perchè possiamo bombardare i militari libici e non i talebani in Afghanistan, ben più tagliagole, dove i nostri caccia fanno solo fotografie. Oppure secondo quale logica colpiamo la Libia, ma non la Siria dove il regime sta massacrando il proprio popolo, come Gheddafi a Misurata.
E non ci vengano a dire che da una parte ci sono solo i fan del colonnello, tutti cattivi o sanguinari e dall’altra i buoni, esempio di democrazia. Il capo politico dei ribelli e quello militare erano rispettivamente ministro della Giustizia e dell’Interno di Gheddafi fino all’altro giorno. A Derna e Al Baida gli ex prigionieri di Guantanamo ed i veterani della guerra santa in Irak sono in prima fila contro il regime.
Il colonnello, dopo 42 anni al potere, ha fatto il suo tempo ed ora che siamo in ballo dobbiamo ballare fino in fondo, ma forse era meglio restare neutrali come la Germania.

www.faustobiloslavo.eu

lunedì 25 aprile 2011

25 APRILE. Speriamo che Pasqua ci salvi dalla retorica

di seguito un commento, a firma Mario Cervi, pubblicato su "il Giornale" di ieri.
buona lettura.

Domani, 25 aprile, i quotidiani non saranno in edicola. Non lo saranno per il fatto che oggi, domenica di Pasqua, rimarranno chiuse sia le redazioni sia le tipografie. L’assenza della carta stampata dipenderà dunque da un banale meccanismo burocratico, privo d’ogni altro significato. Eppure a quel meccanismo io sono tentato d’attribuire una connotazione provvidenziale. Nel giorno della Liberazione saremo liberati anche dai molti pensosi e fervorosi commenti che di solito l’accompagnavano. Deo gratias.
Obietterete che la pausa non colpirà la televisione, strumento d’informazione e d’indottrinamento ben più potente dei fogli cui noi giornalisti all’antica collaboriamo. Sì, la televisione riverserà sugli italiani la prevedibile, massiccia dose di cerimonie, di cortei, di discorsi ufficiali improntati al ricordo solenne, di appelli resistenziali intrisi d’antifascismo puro e duro. Ma si tratterà d’immagini fuggevoli e di parole, tante parole. Lo scritto - concedeteci questo orgoglio minoritario - è altra cosa. Rimane, può essere non solo letto ma riletto, richiede argomentazioni non sommarie. Apprezzo in generale queste caratteristiche della parola scritta nei confronti della parola detta. Ma nel caso specifico del 25 aprile, lo ripeto, l’intervallo casuale di domani va iscritto secondo me tra gli eventi fausti di questa stagione concitata.
Tanto per cominciare ci sarà risparmiata - salvo anticipazioni furbette - l’alluvione d’inchiostro celebrativo in cui tante penne vengono intinte quando si tratta di rammentare, pensateci un po’, l’epilogo d’una guerra perduta. Perché l’Italia l’ha senza dubbio perduta la seconda guerra mondiale, e i camuffamenti nei quali siamo da secoli specialisti non possono alterare questa verità. I veri vincitori brindano più tardi, il loro riferimento temporale è a quando la Germania nazista depose definitivamente le armi. L’Italia precede quei pigri, e inneggia non tanto agli angloamericani che avevano messo in rotta-tardi e male per essere sinceri - le stremate forze tedesche, quanto ai partigiani. I quali rivendicarono il merito d’essere stati loro gli autentici liberatori, irrompendo in città e borgate quando il fascismo in effetti era defunto, l’esercito hitleriano non esisteva più, e nel bunker di Berlino stava per scoccare l’ora del suicidio collettivo. Sì, l’immane strage che aveva insanguinato l’Europa era ufficialmente finita (lasciando tuttavia strascichi angosciosi sia in Italia, con le mattanze di fascisti e pseudofascisti, con le foibe, con le mutilazioni territoriali: sia in Germania, con la sorte atroce delle popolazioni cacciate dalle loro terre e inseguite da avanguardie spietate dell’Armata Rossa). Si ricominciava, dal fondo. Era legittimo un respiro di sollievo per la pace recuperata. Erano a mio avviso eccessivi - ed eccessivi rimangono - i gridi di trionfo lanciati da troppi che non molti mesi prima indossavano la camicia nera (e dai loro figli e nipoti).
Sono queste notazioni perplesse. Non offensive, anzi rispettose e ammirative verso chi s’è battuto con coraggio, e ancor più verso chi ha sacrificato la vita. Ma notazioni immuni dalla retorica che invece in innumerevoli testi imperversa. E che pretende di nobilitare perfino autentiche infamie e oscenità, come l’esposizione dei corpi di Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi in piazzale Loreto.
Un altro motivo mi fa accettare di buon grado, e direi con riconoscenza, il silenzio stampa. Da molti anni a questa parte la Liberazione viene associata, in maniera implicita o esplicita, a battaglie antigovernative. Lo fece il Pci, appropriandosi del 25 aprile, quando al potere erano i democristiani. Lo hanno fatto i successori del Pci, malconci per le sberle della storia ma ancora decisi a rivendicare il monopolio ideologico e piazzaiolo della data fatidica. La rivendicazione è diventata arrogante dopo che Berlusconi-un bambino al tempo della Liberazione - ha fatto irruzione nella politica italiana.
Mi considero immune da ogni tipo di nostalgia fascista (sia del fascismo «normale» sia del fascismo di Salò). Alcuni lettori m’hanno rimproverato, al riguardo, un’eccessiva virulenza antimussoliniana. Se è una colpa, non esito a farmene carico. Ma i collegamenti che qualcuno vuole stabilire tra il centrodestra del terzo millennio e la marcia su Roma, le presunte contiguità tra i padani e le squadracce nere o le svastiche, la pretesa di certa sinistra - tuttora - d’avere una purezza salvifica grazie alla quale l’Italia sarebbe stata redenta se non avesse compiuto l’errore di preferire De Gasperi a Togliatti, mi sembrano proprio roba fuori corso. Roba che pure trovava posto, il 25 aprile soprattutto nei quotidiani, dove si può ampiamente elaborare. Almeno per una volta l’abbiamo scampata.

lunedì 14 marzo 2011

La pluralità non contraddice l'unità della nazione

con troppa frequenza, ogni volta che delle persone importanti tengono un discorso o rilasciano dichiarazioni, capita che le varie parti politiche e non, estrapolino solo alcune righe che possono in tal modo apparire come supportanti una tesi a loro cara (evitando ovviamente di citare quelle che invece risultano sconvenienti...).
è un "vizio" tipico e "bipartisan" che si può ritrovare nelle dichiarazioni di tutti i politici e nei titoli dei giornali delle diverse tendenze.
per tentare di ovviare a tutto questo riporto "INTEGRALMENTE", tratto dal sito www.vativan.va, un recente discorso di Sua Santità BENEDETTO XVI


La pluralità non contraddice l'unità della nazione

La "variegata molteplicità di città e paesi" caratteristica dell'Italia "non è in contraddizione con l'unitàdella nazione, che è richiamata dal 150° anniversario che si sta celebrando". Lo ha sottolineato il Papa nel discorso rivolto stamane, sabato 12 marzo, ai membri dell'Associazione nazionale comuni italiani (Anci), ricevuti in udienza nella Sala Clementina.

Illustri Signori Sindaci!
Rivolgo il mio cordiale saluto a voi tutti e sono grato per la vostra presenza, che rientra in una tradizione consolidata nel tempo, come testimoniano le udienze concesse dal Venerabile Giovanni Paolo II e dai precedenti Pontefici e come ha ricordato il Presidente dell'Associazione, che ringrazio per le belle parole piene di realismo, ma anche di poesia e bellezza, con cui ha introdotto il nostro incontro. Questo fatto attesta il particolare legame che esiste tra il Papa, Vescovo di Roma e Primate d'Italia, e la Nazione italiana, la quale ha proprio nella variegata molteplicità di città e paesi una delle sue caratteristiche.

La prima idea che viene alla mente incontrando i Rappresentanti dell'Associazione Nazionale Comuni Italiani, è quella dell'origine dei comuni, espressioni di una comunità che si incontra, dialoga, fa festa e progetta insieme, una comunità di credenti che celebra la Liturgia della domenica, e poi si ritrova nelle piazze delle antiche città o, nelle campagne, davanti alla chiesetta del villaggio. Anche un poeta italiano, Carducci, in un'ode sulla gente della Carnia, richiama: "del comun la rustica virtù / Accampata all'opaca ampia frescura / Veggo, ne la stagion de la pastura / Dopo la messa il giorno de la festa...".

È sempre vivo anche oggi il bisogno di dimorare in una comunità fraterna dove, ad esempio, parrocchia e comune siano ad un tempo artefici di un modus vivendi giusto e solidale, pur in mezzo a tutte le tensioni e sofferenze della vita moderna. La molteplicità dei soggetti, delle situazioni, non è in contraddizione con l'unità della Nazione, che è richiamata dal 150° anniversario che si sta celebrando. Unità e pluralità sono, a diversi livelli, compreso quello ecclesiologico, due valori che si arricchiscono mutuamente, se vengono tenuti nel giusto e reciproco equilibrio.

Due principi che consentono questa armonica compresenza tra unità e pluralità sono quelli di sussidiarietà e di solidarietà, tipici dell'insegnamento sociale della Chiesa. Tale dottrina sociale ha come oggetto verità che non appartengono solo al patrimonio del credente, ma sono razionalmente accessibili da ogni persona. Su questi principi mi sono soffermato anche nell'Enciclica Caritas in veritate, dove il principio di sussidiarietà è considerato "espressione dell'inalienabile libertà umana". Infatti, "la sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l'autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità" (n. 57). Come tale, "si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano" (ibid.). "Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell'assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno" (n. 58).

Questi principi vanno applicati anche a livello comunale, in un duplice senso: nel rapporto con le istanze pubbliche statali, regionali e provinciali, così come in quello che le autorità comunali hanno con i corpi sociali e le formazioni intermedie presenti nel territorio. Queste ultime svolgono attività di rilevante utilità sociale, essendo fautrici di umanizzazione e di socializzazione, particolarmente dedite alle fasce emarginate e bisognose. Tra esse rientrano anche numerose realtà ecclesiali, quali le parrocchie, gli oratori, le case religiose, gli istituti cattolici di educazione e di assistenza. Auspico che tale preziosa attività trovi sempre un adeguato apprezzamento e sostegno, anche in termini finanziari.

A questo proposito, desidero ribadire che la Chiesa non domanda privilegi, ma di poter svolgere liberamente la sua missione, come richiede un effettivo rispetto della libertà religiosa. Essa consente in Italia la collaborazione che esiste fra la comunità civile e quella ecclesiale. Purtroppo, in altri Paesi le minoranze cristiane sono spesso vittime di discriminazioni e di persecuzioni. Desidero esprimere il mio apprezzamento per la mozione del 3 febbraio 2011, approvata all'unanimità dal vostro Consiglio Nazionale, con l'invito a sensibilizzare i Comuni aderenti all'Associazione nei confronti di tali fenomeni e riaffermando, allo stesso tempo, "il carattere innegabile della libertà religiosa quale fondamento della libera e pacifica convivenza tra i popoli".

Inoltre, vorrei sottolineare l'importanza del tema della "cittadinanza", che avete posto al centro dei vostri lavori. Su questo tema la Chiesa in Italia sta sviluppando una ricca riflessione, soprattutto a partire dal Convegno Ecclesiale di Verona, in quanto la cittadinanza costituisce uno degli ambiti fondamentali della vita e della convivenza delle persone. Anche il prossimo Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona dedicherà una giornata a tale rilevante tematica, giornata alla quale sono stati opportunamente invitati, come ci è stato detto, i Sindaci italiani.

Oggi la cittadinanza si colloca, appunto, nel contesto della globalizzazione, che si caratterizza, tra l'altro, per i grandi flussi migratori. Di fronte a questa realtà, come ho ricordato sopra, bisogna saper coniugare solidarietà e rispetto delle leggi, affinché non venga stravolta la convivenza sociale e si tenga conto dei principi di diritto e della tradizione culturale e anche religiosa da cui trae origine la Nazione italiana. Questa esigenza è avvertita in modo particolare da voi che, come amministratori locali, siete più vicini alla vita quotidiana della gente. Da voi si richiede sempre una speciale dedizione nel servizio pubblico che rendete ai cittadini, per essere promotori di collaborazione, di solidarietà e di umanità. La storia ci ha lasciato l'esempio di Sindaci che con il loro prestigio e il loro impegno hanno segnato la vita delle comunità: giustamente lei ha ricordato la figura di Giorgio La Pira, cristiano esemplare e amministratore pubblico stimato. Possa questa tradizione continuare a portare frutto per il bene del Paese e dei suoi cittadini! Per questo assicuro la mia preghiera e vi esorto, illustri amici, a confidare nel Signore, perché - come dice il Salmo - "se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella" (127,1). Invocando la materna intercessione della Vergine Maria, venerata dal popolo italiano nei suoi tanti Santuari, luoghi di spiritualità, di arte e di cultura, e dei santi Patroni Francesco d'Assisi e Caterina da Siena, benedico voi tutti, i vostri collaboratori e l'intera Nazione italiana.

lunedì 22 novembre 2010

"POLITICA"

La prima definizione di "politica" (dal greco πολιτικος, politikós) risale ad Aristotele ed è legata al termine "polis", che in greco significa la città, la comunità dei cittadini; politica, secondo il filosofo ateniese, significava l'amministrazione della "polis" per il bene di tutti, la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano.

mercoledì 17 novembre 2010

Quello che Saviano non dice sulla ’ndrangheta e la sinistra

articolo tratto dal sito www.ilgiornale.it

Come ogni bravo cronista, Roberto Saviano sa perfettamente che non fa notizia il cane che morde l’uomo ma il contrario sì.
Quindi non può colpire l’attenzione del lettore (o dello spettatore tv) la collusione di un partito con la mafia. Roba già vista. Se, però, il ministro dell’Interno fa parte di quel partito colluso, allora le cose cambiano. Figuriamoci poi se è portato sugli scudi da tutti perché sotto la sua gestione, al Viminale, sono stati sequestrati alla mafia beni per 18 miliardi di euro e assicurati alle patrie galere 29 dei 30 latitanti più pericolosi. E fa notizia, ovviamente, il racconto carico di pathos della riunione dei boss di ’ndrangheta in un circolo culturale intitolato alla memoria di Falcone e Borsellino. Altro che uomo che morde il cane: Lega nord, ’ndrangheta, lo sfregio ai giudici uccisi dal tritolo. L’audience è assicurata. Ma come la volta scorsa, il Savonarola di Terra di Lavoro omette verità pruriginose per il centrosinistra di cui, ormai, è icona e megafono.

Il riferimento al summit di mafia del 31 ottobre 2009 nel circolo Falcone e Borsellino è da brividi, ma è monco. Non dice, il Nostro, che quel circolo è dell’Arci, associazione da sempre vicina al Pci-Pds-Ds-Pd, e il cui presidente (quello che aveva disposto i tavoli a ferro di cavallo ai trenta convenuti per eleggere il capomafia del nord) è il consigliere del Pd di Paderno Dugnano, Arturo Baldassarre. Si dirà: ma Baldassarre non è indagato, non è stato arrestato. Giusto. Anche il consigliere regionale della Lega che avrebbe incontrato il boss Pino Neri di Taurianova non è stato indagato, non è stato arrestato, ma è stato comunque «mascariato» da Saviano.
Il quale, ovviamente, a proposito di ’ndrangheta, di infiltrazioni al Nord, di politici in contatto con personaggi calabresi, s’è ben guardato dal tirare fuori brutti scheletri.
Citando a caso.
Non ha fatto alcun riferimento all’operazione «Parco Sud» che a novembre portò in cella 14 affiliati alla famiglia Barbaro e che sfociò nell’arresto del sindaco Pd di Trezzano sul Naviglio, Tiziano Butturini, un ex Ds.

Non ha ricordato che nel maxi-blitz del 13 luglio contro le cosche in Lombardia ci finì impigliato, per la conoscenza con un imprenditore vicino agli Strangio, un ex rappresentante della giunta di centrosinistra guidata da Penati, ovverosia Antonio Oliverio. Non ha rispolverato il caso di un altro ex assessore provinciale nella stessa giunta, Bruna Brembilla, indagata (e poi prosciolta) perché avrebbe chiesto voti ai calabresi immigrati.

Ragionando come ragiona il Savonarola casalese, si dovrebbe poi appiccicare la patente di mafioso anche a un politico dell’Udc del «nord» che indagato per mafia non è: Rosario Monteleone, presidente del consiglio regionale della Liguria e coordinatore del partito di Casini, il cui nome compare in una telefonata fra calabresi arrestati. E che dire di Pasquale Tripodi, già assessore «in trasferta» di Loiero, coinvolto due anni fa nel blitz della Dda di Perugia (arrestato e poi scarcerato dal Riesame, archiviato) su infiltrazioni del clan Vadalà nell’Umbria rossa.
E che dire di quelle elezioni per il consiglio comunale di Cologno Monzese supervisionate dal clan Valle che tanto hanno imbarazzato i Riformisti ed il Pd. E che dire, inoltre, di Cinzia Damonte, candidata alle regionali liguri per l’Idv, non indagata, sorpresa a distribuire santini elettorali a una cena organizzata da calabresi come Onofrio Garcea, 70enne di Pizzo Calabro, oggi latitante, presente nelle maggiori inchieste sulle ’ndrine di Genova e dintorni. L’elenco a tema è lungo, da non leggere in tv perché finirebbe per smontare il gioco del novello professionista antimafia. Accreditare la sua tesi servendosi delle provocazioni culturali di Gianfranco Miglio (che non può protestare per questa strumentalizzazione) equivale a chiedere a una leggenda del Quattrocento di farsi documento giudiziario incontrovertibile.
L’audience è una cosa, la fazio-sità cos’è?

mercoledì 20 ottobre 2010

replicare o non replicare ? ? ?

questa volta meglio di no.

sarebbe come sparare sulla croce rossa,

e non è il mio forte...

(per i distratti leggere "Cronaca" di oggi...)

lunedì 9 agosto 2010

"I veri nemici del federalismo" di Luca Ricolfi


editoriale, MOLTO INTERESSANTE, di Luca Ricolfi pubblicato oggi sul quotidiano "La Stampa".

Non so se ci avete fatto caso, ma da un po’ di tempo nel mondo della politica ci sono due parole che attirano irresistibilmente chi vuole creare un nuovo marchio. Sono la parola «futuro» e la parola «nazione». Tra le fondazioni politico-culturali, ad esempio, da tempo si distinguono per il loro attivismo «Fare futuro», il pensatoio degli uomini legati a Gianfranco Fini, e «Italia Futura», il pensatoio di quelli legati a Montezemolo. Periodicamente, specie in vista di elezioni, si sente evocare il progetto di una «lista civica nazionale». Quanto alle formazioni politiche vere e proprie, il gruppo dei finiani ha appena scelto di denominarsi «Futuro e libertà», mentre l’Udc di Casini pare intenzionata a dar vita a un «Partito della Nazione». E anche chi, come Rutelli, ha appena fondato un movimento senza ricorrere alle due magiche parole, futuro e nazione, ha finito per scegliere dei sinonimi, che evocano la medesima preoccupazione per il futuro del Paese: il nuovo partito si chiama Api, che significa Alleanza per l’Italia.

Sarà perché l’economia e la società sono ferme - per non dire congelate - da almeno una decina d’anni, sarà perché la macchina del federalismo sta lentamente entrando in funzione, sarà perché l’anno prossimo si festeggia il centocinquantenario dell’Unità d’Italia, sta di fatto che sul destino dell’unità nazionale è iniziata una riflessione importante. La preoccupazione per la coesione del Paese sembra, in particolare, essere il vero collante ideologico che tiene insieme le quattro forze intorno alle quali si sta delineando il cosiddetto «terzo polo»: l’Udc di Casini, l’Api di Rutelli, Futuro e libertà di Fini, il Movimento per le Autonomie di Lombardo.

Ma in che cosa si sostanzia questa preoccupazione per il futuro del Paese? Qual è l’idea dell’interesse nazionale coltivata dai leader di questa area politica?A me pare che l’unico robusto collante politico che tiene insieme queste quattro forze sia l’ostilità per il progetto federalista della Lega. Un’ostilità che usa gli espedienti retorici più diversi, compreso quello di dichiararsi fautori di un federalismo «vero», contrapposto al federalismo farlocco della Lega, ma dietro la quale si riconosce facilmente un’unica vera preoccupazione di fondo: il timore che - giunti al dunque, ossia ai decreti delegati - il federalismo danneggi il Sud, e che per questa via spacchi il Paese. Il programma minimo del nascente Terzo polo è frenare il federalismo, il programma massimo è bloccarlo definitivamente.

Vorrei dire subito che questa preoccupazione «meridionalista», a mio parere, è del tutto rispettabile. Il pericolo che la lotta politica, che oggi si svolge fra il fantasma della destra e quello della sinistra, domani si riduca a un tiro alla fune fra gli interessi del Nord e quelli del Sud, è molto concreto, come giustamente rilevava Francesco Alberoni qualche giorno fa sul Corriere della Sera. Il punto, però, è che non è detto che annacquare ulteriormente il federalismo sia la strada migliore per evitare quel pericolo. In poche parole, è tutto da dimostrare che il futuro della nazione, la coesione del Paese, si tutelino meglio boicottando il federalismo piuttosto che impegnandosi per farlo funzionare nel modo più incisivo possibile. Eppure è questo che sembrano pensare i teorici del Terzo polo. L’Udc di Casini è l’unica forza politica che ha votato contro il federalismo. Fini, già prima della rottura, è arrivato addirittura a chiedersi se dobbiamo proprio farlo, questo benedetto federalismo. Rutelli non perde occasione per demonizzare la Lega, accusata di secessionismo. E attenzione, quel che colpisce in queste critiche è che non entrano mai nel merito dei dettagli, dei meccanismi, delle cifre. In breve, non cercano di contribuire a far funzionare il federalismo, ma soltanto a impedire qualcosa che considerano un male per il Paese, una sciagura per il futuro della nazione.

E allora vediamolo, questo futuro della nazione senza il federalismo. I dati di partenza del federalismo sono tre: 130 miliardi di evasione fiscale e contributiva, 80 miliardi di sprechi della Pubblica amministrazione, una pressione fiscale sull’economia regolare fra le più alte del mondo. Per il Nord significano un assegno di 50 miliardi all’anno staccato al resto del Paese, e un blocco della crescita che dura ormai da un decennio. Il Nord, anche se lo volesse, non è più in grado di sostenere i consumi e gli sprechi delle aree deboli, perché già fatica a stare a galla per conto suo. E il bello è che di questo, sia pure lentamente e dolorosamente, si stanno rendendo conto anche molti amministratori del Mezzogiorno, spesso più avanti di tanti leader nazionali nella comprensione del dramma che attraversa il nostro Paese. Certo gli uomini e le donne del Sud vogliono che lo Stato centrale faccia la sua parte, innanzitutto nel campo delle infrastrutture. Ma sempre più si rendono conto che nulla potranno chiedere se prima non dimostreranno di sapersi amministrare meglio. Ci sono tanti politici e amministratori del Mezzogiorno che la sfida del federalismo l’hanno già accettata, e che non vogliono una guerra civile strisciante fra Nord e Sud, bensì una competizione virtuosa fra territori, fra regioni, fra amministrazioni locali, ben sapendo che le principali vittime del malgoverno sono proprio i ceti deboli che tutti dicono di voler difendere.

Di fronte a queste realtà, che già ci sono e già stanno operando, a me pare molto miope, e per niente in sintonia con l’interesse nazionale, prendersela con il federalismo e con la Lega. Anziché accusare la Lega di separatismo, dovremmo semmai chiederci se un suo ritorno a tentazioni separatiste non sia precisamente quello che, affossando il federalismo, i suoi nemici rischiano di provocare. È paradossale, ma visto da questo angolo visuale l’interesse nazionale è tutelato assai meglio dal Pd e dal Pdl, che non dal Terzo polo. Pd e Pdl, infatti, hanno dato un contributo essenziale a trasformare le istanze autonomiste della Lega in qualcosa di compatibile con l’unità nazionale. Ora la furia antileghista del «terzo polo», più che salvare il Sud dalla sciagura del federalismo, rischia semplicemente di provocare la ribellione del Nord. E questo non perché il Nord stia tutto con la Lega, ma perché, al Nord, le differenze fra gli elettori della Lega e quelli del Pd sono meno grandi di quanto credano i leader del Terzo polo. Si può ritenere che il federalismo sia una cattiva idea, ma è bene sapere che farlo saltare significa perdere il Nord. Vale per i partiti del Terzo polo, ma vale anche per quelli del secondo, innanzitutto per il Partito democratico. E non è detto che, per l’unità del Paese, o per il futuro della nazione, questa sia la strada migliore.

domenica 8 agosto 2010

SCRP, un editoriale interessante.

di seguito un estratto dell'editoriale di oggi de "La Provincia" che condivido totalmente, (non capita spesso...), sul resto del pezzo che trovate sul giornale non esprimo alcun commento.

…Il Pdl è riuscito a far eleggere cinque suoi uomini (errato Direttore… Uno dei cinque è un tecnico indicato dalla Lega la cui rielezione è stata caldeggiata da moltissimi sindaci, soprattutto alla luce del lavoro svolto nel primo mandato) al vertice della società cremasca di servizi su altrettanti posti disponibili dopo il fallimento della trattativa con il Pd per l’inserimento di un consigliere di minoranza.
Sindaci e responsabili locali del partito di Bersani hanno gridato allo scandalo e si sono affidati alla retorica dell’indignazione, lamentando un presunto attacco alla democrazia. Con poca fantasia hanno agitato i frusti argomenti del repertorio anti berlusconiano, senza spiegare perché i loro avversari hanno fatto cappotto. Maggioranza e opposizione non hanno trovato l’accordo perché quest’ultima aveva presentato una lista blindata con cinque nomi, sgradita al Pdl (ma non alla Lega...), che ha impedito l’intesa sul consigliere riservato alla minoranza. Al coro delle prediche della sinistra si sono uniti esponenti ciellini vicini al presidente della Provincia che hanno bollato la vicenda come una delle pagine più vergognose della politica cremasca.
In realtà si tratta di una tempesta in un bicchiere d’acqua perché Corrado Bonoldi, rieletto presidente di Scrp, ha annunciato che uno dei primi impegni del uovo esecutivo sarà riformare lo statuto per garantire la presenza in consiglio di un rappresentante della minoranza. E così l’onta sarà lavata e la democrazia ripristinata.
Resta la figuraccia rimediata da un centrosinistra che si dimostra incapace di trattare e di accettare la sconfitta con dignità…

sabato 26 giugno 2010

un sindaco che sale!!!

sul settimanale di un quotidiano è messo tra "CHI SCENDE"

Bruno BruttomessoIl sindaco di Crema si è ritrovato contro Chiesa, parte della maggioranza (!?!), Caritas e altre associazioni di volontariato e molti suoi elettori (non mia pare...) per la vicenda dell’ordinanza contro l’accattonaggio.


che dire...


Caro Bruno,
per il sottoscritto e la Lega il tuo posto giusto sarebbe tra "CHI SALE", ma questo è un giudizio scontato...
e la città "vera" cosa ne pensa??? basta girare per le strade, parlare con la gente (soprattutto gli anziani che sono "importunati" dai falsi accattoni che si vuole contrastare) per comprendere come l'ordinanza vada nella direzione giusta.