Visualizzazione post con etichetta europa. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta europa. Mostra tutti i post

martedì 9 marzo 2021

CATALUNYA | L’Europarlamento revoca l’immunità ai deputati catalani in esilio.

Articolo per "La Voce del Nord"

Nuvole nere si addensano sull’Europa, scure e foriere di repressione si dipanano dagli scranni dell’emiciclo europarlamentare a Bruxelles per finire sulle terre di Catalogna.

Nere come la ventata di “neofranchismo” che pervade, da oggi non più solo la Spagna ma anche un’Europa sempre più fogna del nazionalismo, anziché culla delle libertà delle persone e dei suoi popoli.

In Belgio il Parlamento Europeo, riunito in seduta plenaria, ha votato, a scrutinio segreto, per rimuovere l’immunità parlamentare di tre eurodeputati catalani, l’ex presidente catalano Carles Puigdemont e i suoi ex ministri Clara Ponsati e Toni Comin, come richiesto dalla magistratura spagnola per poter procedere contro di loro come già ha fatto nei confronti degli altri esponenti indipendentisti condannati a diverse pene detentive per “reati” legati allo svolgimento del referendum per l’indipendenza dell’ottobre 2017.
La revoca apre la strada per Madrid onde poter riattivare i mandati d’arresto europei finora rifiutati dal Belgio.

In una votazione a scrutinio segreto svoltasi ieri sera ma rivelata solo questa mattina, più di 400 eurodeputati hanno votato per revocare la loro immunità, quasi 250 contrari e più di 40 deputati si sono astenuti.
Puigdemont dovrebbe sollevare la questione alla Corte di giustizia europea (CGUE) dopo che è trapelata ai media una relazione della commissione giuridica del parlamento che raccomandava la rimozione della loro immunità.

Questa è la terza volta che la Corte Suprema spagnola ha provato a farli estradare, dopo che precedenti tentativi erano falliti in Scozia, Belgio e Germania.
La perdita della loro immunità non influirà sul loro status di deputati al Parlamento europeo, che manterranno fino a quando non saranno esclusi dall’incarico dopo un’eventuale condanna.

“Oggi è un giorno triste per il Parlamento europeo, noi abbiamo perso la nostra immunità ma il Parlamento europeo ha perso molto di più. Questo è un caso di persecuzione politica”. Così Puigdemont nel corso di una conferenza stampa dopo il voto dell’Eurocamera a Bruxelles.

Se da un lato la repressione del “nazionalismo neofranchista” è arrivata fino all’Europarlamento in Catalogna un giudice di sorveglianza ha stabilito la revocato lo status di semilibertà di cui godevano diversi degli esponenti indipendentisti condannati per reati legati al referendum quali Oriol Junqueras, Joaquim Forn, Raül Romeva, Jordi Turull, Josep Rull, Jordi Sànchez e Jordi Cuixart, che dovranno pertanto rientrare in carcere e restarci fino all’espiazione delle loro pene detentive.
Un brutto segnale, una spregevole forzatura, l’ennesimo attacco alle libertà sul quale tacere è rendersene complici.

giovedì 19 novembre 2020

ECONOMIA | Il “Nord” ancora di fronte al bivio: Europa o Africa?

 Articolo per "La Voce del Nord"

“Dal 2008 ad oggi il divario tra le economie dell’Europa settentrionale e meridionale è costantemente aumentato, con le prime che sono cresciute a una velocità di gran lunga superiore alle seconde. Questo gap via via sempre maggiore ha comportato uno spostamento del centro economico dell’Unione Europea sempre più verso Nord, con buona pace degli obiettivi Ue sulla convergenza economica e sulla eliminazione progressiva delle asimmetrie tra i Ventisette.”

Così scrive una ricerca dell’Institut der Deutschen Wirtschaft, istituto per la ricerca economica con sede a Colonia, ripresa da un articolo a firma di Claudio Paudice sull’Huffington Post. Il quale riporta come tra il 2008 ed il 2019 a fronte di una incremento del PIL nordeuropeo del 37,2% al sud (per intenderci Portogallo, Spagna, Italia tutta, ecc.) solo del 9,9%.

Prosegue l’articolo ricordando come “La ricerca individua gli spostamenti del fulcro economico (cioè il punto dal quale la produzione economica aggregata è più o meno uguale in tutte le direzioni) in Europa negli ultimi vent’anni. Partendo dal centro geografico (collocato nel Sud della Germania) quello economico viene ricalcolato in base all’andamento della produzione delle regioni europee. L’esercizio serve naturalmente a fotografare una tendenza: nel 2000 il centro economico europeo si colloca a metà strada tra Offenburg e Friburgo, a cavallo del confine franco-tedesco.”

Per finire mostrando come: ”Secondo la ricerca di questo passo il centro economico europeo si sposterà sempre di più verso il Nord, allontanandosi dal centro geografico. Stando ai calcoli fatti da Kauder, infatti, tra venticinque anni il cuore della ricchezza dell’Unione Europea si inoltrerà ancora più in territorio tedesco di 200 chilometri, posizionandosi a Mannheim, città del Baden-Württemberg, verso Francoforte. Nulla di incoraggiante per le economie del Sud.”

Questi i numeri e le previsioni su cui basare considerazioni, analisi e progettare azioni per “evitare” che lo scenario prospettato possa realizzarsi in concreto. I cosiddetti “sovranisti”, che preferisco peraltro definire “sovratonti”, prenderebbero la palla al balzo farfugliando come sarebbe ovvio e doveroso uscire dall’Euro e dall’Unione Europea, tornare alla liretta e vivere di svalutazione. Una prospettiva deleteria e cialtronesca che vede nell’Argentina un valido esempio di messa in atti di tali “politiche”.

Passando a prospettive serie giova preliminarmente ricordare altri dati, vale a dire quelli sull’ammontare dello scambio commerciale, ad esempio della Lombardia, nei confronti dell’UE in generale ammonti a 161 miliardi, dei quali ben 44 con la sola Germania. Numeri che ne fanno più un Lander teutonico che una Regione italica…

Un legame forte e stretto nato in decenni di collaborazione e affari del tessuto economico e imprenditoriale che hanno permesso alla Lombardia di divenire uno dei “Motori d’Europa”, seppur gravato da una zavorra dal nome “stato italiano”. Un motore che rischia di divenire sempre più marginale se mai le previsioni dello studio tedesco dovessero avverarsi.

Un “motore” che non può permettersi di sganciarsi dagli altri a nord delle Alpi, pena il progressivo scivolamento verso altre latitudini levantine con conseguente impoverimento e declino economico nonché sociale.

Un “motore” i cui “pistoni” fatti da artigiani, pmi, grandi aziende, professionisti e corpo sociale da sempre vede nella collaborazione, nello scambio e nell’integrazione con le aree più avanzate e produttive del continente non certo un luogo oscuro da cui scappare ma bensì la sua naturare collocazione.

Un “motore” troppo spesso “gigante economico” ed al contempo “nano politico” che deve soprattutto oggi alzare la sua voce nei confronti di decisori politici che non sembrano affatto rendersi conto dei problemi di queste aree facenti parte protempore dell’entità statali italiana, le cui uniche risposte in questi mesi sono stati banchi a rotelle, bonus per monopattini ed ennesimi sgravi per il sud.

Un “motore” orfano di rappresentanza politica vera, per la rinuncia di alcuni non certo per una sopravvenuta scomparsa delle necessità e prospettive che da sempre vi risiedono, ormai di fronte ad un bivio le cui uniche direzioni proposte sono: Europa o Africa. Una delle quali è la strada che “naturalmente” il motore vuole imboccare e l’altra quella cui sarà destinato suo malgrado se non saprà sganciarsi dal solito e onnipresente baraccone.

martedì 24 settembre 2019

INDIPENDENZA | Nuovi arresti in Catalogna, l’accusa è di “aver pianificato il terrore”


Articolo per "La Voce del Nord"

C’era furia in Catalogna ieri dopo che 500 funzionari della Guardia Civil, che agivano su ordine del tribunale nazionale di Madrid, hanno effettuato una serie di raid mattutini nelle città vicino a Barcellona e arrestato nove attivisti indipendentisti.

Gli arrestati sono stati accusati di aver pianificato atti “terroristici” da mettere in atto nelle prossime settimane, in quanto membri di “un gruppo terrorista secessionista catalano”.

I magistrati ritengono che i detenuti abbiano legami con i Comitati per la difesa della Repubblica (CDR), una rete di assemblee istituite nel 2017 per difendere i tentativi di scissione dalla Spagna promuovendo proteste pacifiche.

La delegata del governo spagnolo in Catalogna, Teresa Cunillera, ha dichiarato: “È un’operazione giudiziaria. La polizia civile della Guardia sta seguendo gli ordini dei giudici per prevenire i crimini”.


Tuttavia, c’è indignazione tra i politici a favore dell’indipendenza e si sostiene che i raid siano stati programmati per spostare l’attenzione dai verdetti nel processo che vede imputati diversi politici catalani davanti alla Corte Suprema di Madrid.

Il presidente catalano Quim Torra ha reagito su Twitter, scrivendo: “La repressione continua ad essere l’unica risposta dalla Spagna. Stanno cercando di ricostruire una narrativa violenta nel periodo precedente al verdetto [del processo dei leader incarcerati]. Non ci riusciranno. Il movimento per l’indipendenza è e sarà sempre pacifico.”

I dirigenti dei CDR hanno dichiarato: “Non importa quante incursioni indiscriminate e detenzioni arbitrarie ci saranno, non fermeranno un popolo determinato e combattivo”.

Partiti a favore dell’indipendenza con parlamentari nel congresso di Madrid, la sinistra repubblicana di Catalogna (ERC) e Junts x Catalonia (JxCat) hanno chiesto al ministero degli affari interni spagnolo di riferire davanti alla camera bassa.

La portavoce di JxCat, Laura Borràs, ha dichiarato: “Questa è un’operazione opaca e criminale contro il movimento per l’indipendenza. Prima arrestano e poi indagano? Vogliamo una spiegazione.”
Una cosa è certa, la repressione centralista spagnola non di ferma, con buona pace dei principi di democrazia e libertà che sarebbero le radici della vecchia Europa, il tutto nell'assordante silenzio di tanti, di troppi.

domenica 9 settembre 2018

SVEZIA | Alby, la piccola Bagdad dove anche la polizia ha paura a entrare. Il fallimento del "modello" immigrazionista svedese.


Sul Corriere della Sera di oggi un reportage su Stoccolma, ma in passato ne abbiamo già letti su Londra, Parigi e Bruxelles tanto per citare alcune grandi città del vecchio continente, che certifica ancora una volta il fallimento di diversi “modelli” di gestione del fenomeno dell’immigrazione e della seguente integrazione, ammesso che sia possibile, nelle varie comunità delle diverse “generazioni” dei “nuovi europei” ancora a cavallo con la vecchia patria di origine e culture tanto differenti tra loro.

Fallimento le cui ricadute negative quotidiane colpiscono sia le popolazioni “autoctone” sia quelle cosiddette “migranti”, il cui riconoscimento, purtroppo negato specialmente a sinistra, dovrebbe essere alla base di ogni seria riflessione sul tema da cui possa nascere una risposta nuova e coerente con la realtà odierna.
Alby, la piccola Bagdad svedese dove anche la polizia ha paura.Viaggio in una «no go zone» di Stoccolma, dominata da gang e spacciatori. Qui la socialdemocrazia ha fallito.
Era una bella Saab. «L’avevo comprata coi soldi che m’aveva lasciato mio padre». Una sera gliel’hanno incendiata proprio sotto casa, dietro il piazzale dell’Alby Centrum. «Ci sono stati degli scontri con la polizia». Dalla finestra, l’impiegata di banca Tove Friedriksson ha visto tutto: le proteste degli iracheni, le molotov, i lampeggianti blu, le cariche casco&manganello, gli arresti. «Non sono uscita di casa, perché ho avuto paura. Ma la mattina dopo, sì. Vado a fare la denuncia dei danni. E siccome all’assicurazione servono i dettagli, chiedo qualcosa degli arrestati». Niente nomi, dice la polizia. «E quelli dei loro avvocati?». Niente. «Ma sono stati gli arabi o gli africani?». È a quel punto che il poliziotto alza gli occhi: che razza di domanda, «l’etnia non possiamo comunicarla». Vietato chiedere: «Ho rischiato una denuncia per razzismo e xenofobia. Dichiarare che è stato un immigrato a bruciare l’auto, è un’informazione impropria. Va contro la legge».
Se domattina vi chiederete perché la Svezia alle urne ha castigato dopo un secolo i socialdemocratici della tolleranza totale, premiando la destra intollerante, Tove ha qualche risposta. Indovinate oggi per chi vota lei. Ad Alby fa sorridere l’altissima media nazionale d’accoglienza dei profughi, uno ogni cinque svedesi: in questo sobborgo alla penultima fermata della linea rossa, venti chilometri a ovest e migliaia d’anni luce dal centro di Stoccolma, gli svedesi-svedesi come Tove sono uno su dieci. L’11 per cento. Mosche bianche. Sperdute fra alveari marroni edificati negli anni delle guerre balcaniche, dei massacri africani, delle fughe afghane, delle agonie mediorientali. Diecimila abitanti, cinquemila appartamenti riservati ai rifugiati: Alby, Norsborg, Hallunda ormai li chiamano Little Bagdad, Little Mogadiscio, Little Sudan. La squadra di calcio del quartiere è il Konya, come la città dei dervisci, e ha la stessa divisa biancoverde del Konyaspor turco. Nella scuola elementare non si festeggia mai il Natale, per non discriminare la stragrande maggioranza musulmana. Nei fast food non si trova il bacon. E se negli anni 80 c’era un asilo no gender fiorito dalla pedagogia egualitaria e socialdemocratica, di quelli che proibiscono di fare distinzioni discriminatorie e politicamente scorrette fra maschietti e femminucce, ora in piscina si nuota separati per sesso e le mamme ci entrano velate. La disoccupazione è al 70 per cento, contro la media nazionale del sei. Un tempo, qui si veniva a fare il bagno sulle rive dell’Albysjon, a pedalare nei boschi, a vedere dove aveva la villa il signor Ericsson, quello dei telefonini.
Oggi, Alby è stata dichiarata una delle otto «no go zone» vulnerabili del Paese, gang e spaccio, dove la sera i pompieri non sempre vanno se li chiamano e anche i poliziotti stanno all’occhio: «L’auto di servizio non dobbiamo mai posteggiarla lontana — dice l’agente Roger Kampe, in servizio da sette anni —, perché te la trovi danneggiata. E l’ordine è di girare sempre in due o tre, mai da soli». In un garage, a marzo è stato scoperto un deposito d’esplosivo, «roba da professionisti». Sugli ascensori dei palazzoni, le scritte in arabo inneggiano a qualche guerra santa. Un ragazzino di 16 anni è stato accoltellato in pieno giorno, un mese fa, davanti al centro commerciale: «C’erano almeno trenta testimoni, nessuno ha visto nulla».
Ad Alby, governano da sempre le sinistre. Ma stavolta non si sa. I postfascisti di Svezia Democratica, annunciati vincitori di queste elezioni politiche, qui non mettono piede. Non si vede un manifesto di Jimmie Akesson, il Salvini che vuole rispedire a casa i migranti e sull’esistenza di posti così sta costruendo la sua fortuna politica. L’imam non ha voglia di parlare coi giornalisti, da quando l’hanno messo in mezzo con una telecamera nascosta (si vede un candidato locale della sinistra garantire tremila voti sicuri a un alleato di lista, «alla preghiera l’imam convincerà i musulmani a votare te, e tu in cambio gli costruirai la nuova moschea...»: tutta acqua al mulino di Jimmie lo spaventastranieri). Venerdì sera il sobborgo era mezzo deserto, tutti a guardare Jimmie Akesson nell’ultimo confronto elettorale in tv. E sentirlo parlare di posti come Alby. Parole pesanti: «Lo sapete perché quella gente non trova lavoro? Perché non s’adattano alla Svezia. E non sono svedesi». Urla, fischi, buuu. Nessuno ad Alby voterà mai Jimmie. «Ma qui siamo in Medio Oriente», dice Tove. E fuori di qui c’è una Little Svezia che non vuole diventare una grande Bagdad.

venerdì 29 giugno 2018

EUROPA | le conclusioni (giuste, sbagliate, vere o false...) del Consiglio Europeo sul tema migranti/profughi/clandestini


Nemmeno il tempo di approfondire il testo, di cui al link nel post, con le conclusioni del Consiglio Europeo dei Capi di Stato e di Governo di ieri (terminato peraltro stamane all'alba) che già è un intasare faccialibro con tonanti e spellicanti dichiarazioni, analisi e sentenze sul suo contenuto e gli effetti concreti che potrà avere.

Francamente il solito teatrino dove ognuno parteggia per partito preso sminuendo oppure esaltando il documento.


Volendo essere oggettivi se il testo, come ogni documento politico, produrrà gli effetti che si propone lo si saprà nei prossimi mesi quando le misure e gli intenti prenderanno forma di leggi, delibere, direttive, ecc... in altre parole si tramuteranno in atti concreti.

Una cosa mi pare incontrovertibile però, sperare di recuperare in una sola seduta quanto non fatto, o fatto male (basti ricordare l'accordo secondo il quale Renzi ottenuto qualche punto percentuale flessibilità sul deficit col quale finanziare gli ormai celeberrimi 80 euro in cambio dell'accordo per cui ogni profugo/migrante/clandestino doveva essere fatto sbarcare in italia n.d.r.), negli ultimi sette anni dai vari Letta, Bonino, Renzi, Alfano e Gentiloni, era e resta un atto di presunzione da un lato e pregiudizio dall'altro. 
🧐🤨😏

A seguente link il testo approvato:

giovedì 29 giugno 2017

PROFUGHI & MIGRANTI, o per meglio dire CLANDESTINI


Dal sito del Corriere della Sera:
Sensibile sulla questione anche il presidente francese Emmanuel Macron che ha chiesto coerenza all’Europa sulle «grandi sfide che si pongono ai nostri tempi» ma che ha fatto un distinguo sui migranti: «Noi sosteniamo l’Italia e la Francia deve fare la sua parte sull’asilo di persone che vogliono rifugio. Poi c’è il problema di rifugiati economici, e questo non è un tema nuovo: l’80% dei migranti che arrivano in Italia sono migranti economici. Non dobbiamo confondere».
CONDIVIDO E SOTTOSCRIVO OGNI SINGOLA PAROLA DEL PRESIDENTE FRANCESE, NUOVA ICONA DELLA SINISTRA DE NOALTRI...

PERTANTO EVITIAMO OGNI CONFUSIONE, DI PROFUGHI VERI E PROPRI NE ARRIVANO BEN POCHI, GLI ALTRI CHIAMATELI PURE "MIGRANTI", MA IN REALTÀ SONO "CLANDESTINI".

venerdì 9 giugno 2017

INDIPENDENZA | La Catalogna sfida Madrid: «Referendum per l'Indipendenza l’1 ottobre».


L'annuncio del presidente Carles Puigdemont: «Ai catalani verrà chiesto se vogliono che la Catalogna sia uno stato indipendente e repubblicano».

Il presidente catalano Carles Puigdemont ha lanciato questa mattina l’ultima sfida allo stato spagnolo annunciando che il referendum sull’indipendenza della Catalogna sarà convocato il primo ottobre prossimo malgrado il veto del governo di Madrid. Ai catalani sarà chiesto, ha detto, se vogliono che la Catalogna sia «uno Stato indipendente sotto forma di Repubblica».

Rajoy: «Illegale»


L'annuncio di Puigdemont aggrava la crisi in corso con Madrid, dagli sviluppi imprevedibili. Il premier conservatore spagnolo Mariano Rajoy ha dichiarato «illegale» e «anticostituzionale» il referendum catalano, affermando che ne impedirà lo svolgimento. Puigdemont ha annunciato in forma solenne la data della convocazione del referendum nella sede della Generalità catalana, circondato da tutto il governo e dai deputati indipendentisti che hanno la maggioranza assoluta nel parlamento di Barcellona. Per ora non è stato firmato alcun atto ufficiale per evitare che Madrid faccia immediatamente ricorso alla Corte costituzionale spagnola per bloccare la convocazione e chiedere misure contro i dirigenti catalani. Puigdemont ha accusato il governo di Madrid di non avere dato alcuna risposta positiva alle offerte di negoziato da parte della Catalogna. Il «President» ha fatto risalire l'aggravamento del conflitto con la Spagna alla sentenza della corte costituzionale di Madrid di 7 anni fa che aveva bocciato lo «statuto catalano» votato dai parlamenti di Madrid e Barcellona e approvato con un referendum dalla popolazione catalana. Da allora «tutte le nostre proposte sono state respinte», ha detto, e da Madrid è giunta «una lunga serie di no».

venerdì 24 marzo 2017

AGRICOLTURA | per gli errori del ministro Martina (PD), l'Europa non paga!


Se vi state chiedendo perché, di punto in bianco, dalle parti del PD sia partita una campagna contro la Regione Lombardia ed in particolare l'assessore Gianni Fava in merito ai fondi europei per l'agricoltura, la risposta è nell'ennesima figura da cioccolataio (per non dire altro... 💩💩💩) che il "loro" ministro dell'agricoltura, tale Maurizio Martina, ha rimediato in sede europea.

Il giochino è sempre lo stesso, gettare la croce sugli avversari al solo scopo di creare una cortina di fum
o 💨 per nascondere la propria incompetenza.
Peccato che il giochino sia ormai vecchio e logoro...
😏 
+++ Fondi Ue Psr Feasr 2007-2013. Bruxelles boccia Italia e non paga 1,7mld. +++
L’Unione europea ha deciso di non liquidare all’Italia (tramite l’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura) i conti del Psr Feasr 2007/2013 per un totale di un miliardo e 700milioni di euro. Molti paesi cui sono stati contestati i fondi dello Sviluppo rurale, ma nessuno come l’Italia. Peggiore della classe. In pratica no riusciamo a spendere i soldi dell’Unione europea.

La decisione che ha portato Bruxelles a stralciare i conti dell'organismo pagatore IT01 (AGEA) è dovuta per la presenza di problemi di conformità e ritardi nell'attuazione di un piano d'azione volto ad ovviare alle carenze nei controlli essenziali sul rispetto dei criteri di riconoscimento. In pratica i conti FEASR dell'organismo pagatore IT26 (ARCEA) sono stralciati per la presenza di “errori rilevanti”. Il saldo finale dei programmi 2007IT06RAT001, 2007IT06RPO001, 2007IT06RPO004, 2007IT06RPO005, 2007IT06RPO006, 2007IT06RPO008, 2007IT06RPO012, 2007IT06RPO013, 2007IT06RPO015, 2007IT06RPO016, 2007IT06RPO017, 2007IT06RPO019, 2007IT06RPO020 e 2007IT06RPO021 del FEASR 2007-2013 dell'organismo pagatore IT01 (AGEA) – si legge a pagina 13 dell’allegato di sintesi della Commissione - non ha potuto essere pagato in quanto i conti annuali del FEASR per l'ultimo esercizio di attuazione (16.10.2014-31.12.2015) non sono stati liquidati. E non solo: non è stato liquidato neppure il saldo finale del programma 2007IT06RPO018 del FEASR 2007-2013 dell'organismo pagatore IT26 (ARCEA).

In pratica i conti dell'organismo pagatore IT01 (AGEA) sono stralciati per la presenza di problemi di conformità e ritardi nell'attuazione di un piano d'azione volto ad ovviare alle carenze nei controlli essenziali sul rispetto dei criteri di riconoscimento" (in questo caso si parla di criteri di riconoscimento dello status di Organismo Pagatore).

Analoga situazione per l'Organismo Pagatore della Calabria "ARCEA" per un importo di Euro 174.500.000 ca. (di fatto ARCEA è un'appendice di AGEA).

I conti dell'organismo pagatore IT01 (AGEA) sono stralciati per la presenza di problemi di conformità e ritardi nell'attuazione di un piano d'azione volto ad ovviare alle carenze nei controlli essenziali sul rispetto dei criteri di riconoscimento. Mentre i conti FEASR dell'organismo pagatore IT26 (ARCEA) sono stralciati per la presenza di errori rilevanti.

I conti del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) sono liquidati ogni anno con procedura contabile prevista dall'articolo 51 del regolamento (UE) n. 1306/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio e dall'articolo 30 del regolamento di esecuzione (UE) n. 908/2014 della Commissione.

A norma dell'articolo 37 del regolamento (UE) n. 1306/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'articolo 41 del regolamento delegato (UE) n. 907/2014 della Commissione e dell'articolo 71 del regolamento (CE) n. 1698/2005 del Consiglio, nell'ultimo esercizio di attuazione i conti annuali devono essere presentati alla Commissione entro i sei mesi successivi al termine ultimo di ammissibilità di cui all'articolo 65, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 1303/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, e riguardano le spese effettuate dall'organismo pagatore riconosciuto fino al termine ultimo di ammissibilità delle spese (31.12.2015).

Il calcolo e il pagamento del saldo finale di ciascun programma FEASR è effettuato in base ai conti annuali per tutti gli esercizi finanziari successivi (2007-2015) e alle corrispondenti decisioni di liquidazione dei conti. In alcuni casi, i conti annuali dell'ultimo esercizio di attuazione o degli esercizi precedenti sono stralciati, pertanto non sono proposti per la liquidazione entro il 31 dicembre 2016 e, di conseguenza, il saldo finale non può essere pagato.
fonte AGV NEWS/AGRICOLAE

domenica 12 febbraio 2017

MILANO, lo sguardo in Europa nonostante l’Italia “palla al piede”

La città è in trasformazione, sta diventando un hub della conoscenza e della creatività. Ma anche le élite stanno cambiando, nella loro composizione, nei settori della vita economica che le esprimono e anche nei valori che le animano.
Questo l'incipit di un articolo puibblicato sul Corriere della Sera firmato da Dario Di Vico, dedicato all'evoluzione continua del capoluogo lombardo e la sua "distanza" rispetto al resto del paese. Una lontananza sempre più marcata che se da un lato porta il Presidente del Consiglio Renzi a invitare Milano a trascinare il resto del paese, non può da un altro portare ancora in primo piano una annosa "questione", vale a dire quella "settentrionale", fatta di un territorio nel suo complesso dinamico e produttivo che vede certo in Milano la sua vetrina e porta verso l'Europa e il mondo, ma senza il quale la stessa capitale meneghina non potrebbe ricoprire questo ruolo.
In quest'ottica bene ha fatto il Presidente della Regione Lombardia Maroni nel richiamare Renzi, all'indomani della firma del "Patto per Milano", ad allargare lo sguardo su tutto il resto della regione proponendo un "Patto per la Lombardia". Una Regione che da sola vale, è bene ricordarlo, il 20% e oltre di tutta la richcezza prodotta in Italia.
Tornando all'articolo del Corsera vi si legge tra l'altro:
Quanto dista Milano dal resto d’Italia? Tanto, viene da rispondere e la stessa percezione la deve aver avuta ieri il premier Matteo Renzi dopo aver ascoltato in Assolombarda la relazione di Gianfelice Rocca.
Il guaio è che mentre si riduceva il gap tra Milano e le Londra, le Parigi, le Francoforte, si andava ampliando quello tra la città di Ambrogio e il resto dell’Italia. Il motivo è doppio: da una parte Milano si è messa a correre ma dall’altra il Paese — preso nella sua media — non solo non ha fatto altrettanto ma nel complesso è rimasto fermo.
E ancora:
Sia chiaro, la straordinaria ripartenza di Milano ha sorpreso tutti, non siamo ancora riusciti a ricostruirne molti dei passaggi che l’hanno resa possibile, la chiave del mutamento però non sembra proprio risiedere dentro la dimensione politica. Anzi. È il grado di apertura internazionale della città, la capacità delle sue classi dirigenti di essere dentro le reti globali delle competenze che paiono averle permesso non solo di attraversare i sette anni difficili della Grande Crisi ma addirittura di uscirne più forte e motivata.
In ultimo una domanda si pone Di Vico:
E così una domanda è rimasta inevasa e ha a che fare anch’essa con la grande distanza che separa Milano e il resto d’Italia. Non pensa il premier che questo gap si sia allargato anche per responsabilità di una politica economica à la carte che passando dalle leggi di Stabilità a quelle di Bilancio ha prodotto molte misure e poche certezze?
La domanda è rivolta direttamente a Renzi ed a lui l'onere della risposta. Ma un'altra la vogliamo fare noi: Per quanto tempo ancora, Milano e tutto il Nord, dovranno trainare i vagoni fatiscenti della buorcrazia romana e dell'arretratezza del mezzogiorno con tutte le sue clientele e sprechi prima di cedere sotto questo peso insostenibile? La "Questione Settentrionale" è ancora aperta come testimonia, anche più di prima e magari involontariamente, l'articolo che abbiamo citato. Dare le risposte adeguate per chiuderla è un imperativo delle classi dirigenti delle regioni della Valle del Po.

venerdì 17 giugno 2016

SALMOND (SNP): No alla Brexit, la Scozia pronta a referendum per restare nell'Unione Europea

Salmond (con la bandiera gallese) ad una manifestazione
insieme al Playd Cymru, il partito indipendentista del Galles
Nel dibattito sulla cosiddetta Brexit, il cui referendum è in programma per il prossimo 23 giugno in tutta la Gran Bretagna, pochissimi sono stati gli spazi, le citazioni, i post sui social che riportano la posizione dei grandi partiti indipendentisti di Scozia e Galles (per citare solo i principali).
Entrambi schierati per RemaIN, vale a dire il no all'uscita del regno (nel quale ci stanno un po' stretti...) dall'Unione Europea.
Per questo riporto con piacere un ampio stralcio dell'intervista rilasciata dall'ex leader dello Scottich National Party Alex Salmond al quotidiano Il Sole 24 Ore.
Buona, e soprattutto attenta, lettura...
«La Scozia vuole restare nell'Unione ed è pronta a un altro referendum per staccarsi da Londra», dice al Sole 24 Ore Alex Salmond. «Se Edimburgo voterà per l’adesione all’Ue e il resto del Regno Unito sceglierà l’addio all'Unione europea entro due anni sarà organizzato un nuovo referendum per l’indipendenza scozzese». Nel suo studio di Westminster, Alex Salmond, 61 anni, leader storico dello Scottish national party non s’affida, davvero, alla vaghezza di un “se”. Il voto di Edimburgo il 23 giugno, dice, è scontato: esiste una solidissima maggioranza a favore di Remain. Lo stesso accadrà in Irlanda del Nord, le nove contee dell’Ulster che vivono anni di pace sulla scorta di muri abbattuti, cominciando proprio dalla frontiera fra il settentrione britannico e il resto dell’isola, repubblicana e indipendente.
La Scozia, con Ulster e Galles, è il ventre molle di questa campagna referendaria. Un voto capace di tracciare la silhouette di nazioni divise ridarebbe vigore alla voglia secessionista di Edimburgo e garantirebbe una spinta alle antiche, tragiche istanze delle nove contee unioniste nordirlandesi, oggi stemperate da un’economia in ripresa nel nome della special relationship con Dublino. Il Galles finirebbe trascinato da un’accelerazione centrifuga e il Regno Unito esploderebbe oltre le frontiere che oggi conosciamo. È uno scenario per nulla irreale, una probabilità più che una possibilità. Gli ex premier Tony Blair e John Major sono stati espliciti abbastanza in queste ultime ore.
Alex Salmond scorge nella solidarietà celtica un filo rosso di opposizione al dominio inglese, ma sgombera il campo dall’equivoco. «Sono qui a fare con lealtà campagna per evitare Brexit – dice – ma la difficoltà per il Regno Unito è evidente. Se tre nazioni decidono di rimanere legate all’Ue e una sola, la più grande, l’Inghilterra, conferma di volersi staccare si creerà un quadro obiettivamente complesso. Snp aveva proposto che per Brexit fosse necessaria la maggioranza referendaria anche in ogni singolo Paese. È stato deciso diversamente perché ci sarebbe stato il rischio di trattenere l’Inghilterra dall’esprimere il proprio destino. La verità è che non si può fare un referendum in uno stato multinazionale, senza considerare che lo è stato è multinazionale».
E il destino di Edimburgo? 
Il futuro della Scozia è chiaro: se la maggioranza dei nostri cittadini vorrà restare nell'Ue, entro due anni faremo una nuova consultazione sull'indipendenza. Il margine temporale coincide con quello dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona che segna il limite entro cui Londra dovrà negoziare l’uscita dall'Ue. Il nostro referendum dovrà avvenire prima per evitare di uscire formalmente dall'Ue per poi rientrare. Non avrebbe senso. C’è un precedente: quando la Groenlandia lasciò l’allora Comunità europea la Danimarca non dovette andarsene per poi essere riammessa. In questo caso lascerebbe il resto del Regno Unito, non la Scozia.
È certo che la Scozia sostenga Remain?
Senza il minimo dubbio. 
Ma i sondaggi dicono che oltre il Vallo, oggi, non c’è troppa voglia di indipendenza. Lei crede che in caso di Brexit la sua gente, questa volta, voterebbe per la separazione da Londra?
Ci sono stati quattro opinion polls, tre favorevoli alla secessione in caso di Brexit e uno no. Quando io ho cominciato la campagna referendaria per l’indipendenza scozzese non avevo nemmeno il 30% e siamo arrivati al 45 per cento. Partire dai livelli di oggi è tutt'altra cosa.
È stata una mossa politicamente intelligente indire il referendum sull'adesione all'Ue?
No, piuttosto stupida perché un referendum non si organizza per dire: lasciamo le cose come sono. Si indice sulla scorta di un nuovo progetto. È stato sorprendente perché David Cameron è fortunato e abile nel leggere gli eventi. In questo caso è stato completamente cieco. E a chi sostiene che è stato indetto per unire i Tory domando: si unisce un partito spaccandolo a metà?
Lei si è detto ottimista sull'esito finale, svelando di credere in una vittoria di Remain. Qual è la minaccia più preoccupante che grava su questi ultimi giorni di campagna elettorale?
Oggi sono a Londra, domani a Oxford fra tre giorni in Galles poi in Irlanda del Nord e poi in Scozia un grandtour di campagna referendaria per un sì all'Ue. Con me porto un messaggio positivo. Per evitare Brexit bisogna dire,forte e chiaro, che rimanere in Europa è giusto, è utile, è vantaggioso.

mercoledì 22 luglio 2015

UNIONI CIVILI | la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo

 Come troppo spesso capita, ed in questo paese ne siamo maestri, su temi importanti e sentiti come quello delle unioni civili, tra persone di sesso differente e del medesimo, la superficialità regna sovrana e le polemiche che ne scaturiscono si basano più sul "sentito dire" e su di una precaria lettura dei documenti piuttosto che sull'analisi seria e approfondita degli stessi.

Un caso alquanto lampante è quello della recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo riguardo la tutela delle unioni tra persone dello stesso sesso.
Da subito si sono riproposti i soliti schieramenti tra favorevoli e contrari, senza avere però ben chiaro a cosa si è a favore e contro cosa ci si schiera...

E pensare che basterebbe avere la piccola pazienza di andarsi a leggere per intero la sentenza per capire che molto del dibattito che ne è scaturito si basa sul nulla.
Io, nel mio piccolo, l'ho fatto anche traducendo, come riportato di seguito, i passaggi salienti della sentenza, che nelle immagini ho evidenziato in giallo.

Un documento dove si afferma che la tutela dei rapporti stabili tra persone dello stesso sesso si può realizzare anche senza ricorrere allo strumento del matrimonio e di come i famosi registri comunali (come quello appena approvato a Crema) abbiano solo un valore "simbolico", ma non tutelino affatto le coppie.

Come ho già scritto in un post precedente l'introduzione delle "unioni civili", sia tra persone di sesso differente che del medesimo, lo trovo un traguardo da raggiungere quanto prima.
Possibilmente non all'italiana come al solito.

Ecco la mia traduzione della sentenza:
L'Italia dovrebbe introdurre possibilità di riconoscimento giuridico per le coppie dello stesso sesso
Nella sua sentenza odierna (Ricorso n 18766/11 e 36030/11), la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha dichiarato, all'unanimità, che vi è stata:una violazione dell'articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Il caso riguarda la denuncia presentata da tre coppie omosessuali che ai sensi della normativa italiana non hanno la possibilità di sposarsi o entrare in qualsiasi altro tipo di unione civile.
La Corte ha ritenuto che la tutela giuridica attualmente disponibile per le coppie dello stesso sesso in Italia - come è stato dimostrato dalla situazione dei ricorrenti - non solo non è riuscita a proteggere i bisogni rilevanti per una coppia impegnata in una relazione stabile, ma non era anche sufficientemente affidabile. Una unione civile o partenariato registrato sarebbe il modo più appropriato per le coppie dello stesso sesso, come i ricorrenti, di vedere la loro relazione legalmente riconosciuta.
La Corte ha sottolineato, in particolare, come vi sia una tendenza nel Consiglio d'Europa, tra gli Stati membri, verso il riconoscimento giuridico delle coppie dello stesso sesso - 24 dei 47 Stati membri hanno legiferato in favore di tale riconoscimento - e che la Corte costituzionale italiana ha più volte chiesto la formalizzazione di regole per la protezione e il riconoscimento di tali unioni. Inoltre, secondo recenti sondaggi, la maggioranza della popolazione italiana sostiene il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali.
Reclami, la procedura e la composizione della Corte
Tutti i ricorrenti lamentavano che ai sensi della normativa italiana non hanno la possibilità di sposarsi o entrare in qualsiasi altro tipo di unione civile, e che esse sono discriminate sulla base del loro orientamento sessuale. Essi hanno sostenuto la violazione dell'articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) da solo e l'articolo 14 (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l'articolo 8, e dell'articolo 12 (diritto al matrimonio) da solo e l'articolo 14 (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l'articolo 12.
Decisione della Corte
Articolo 8
In casi precedenti, la Corte ha già dichiarato che il rapporto di una coppia convivente dello stesso sesso attraverso un partenariato stabile, di fatto, rientra nel concetto di "vita familiare" ai sensi dell'articolo 8. Aveva anche riconosciuto che persone dello stesso sesso hanno bisogno del riconoscimento giuridico e la tutela del loro rapporto di coppia.Tale necessità è stata inoltre sottolineata da raccomandazioni dell'Assemblea parlamentare e dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, invitando gli Stati membri a valutare la possibilità per le coppie dello stesso sesso di una qualche forma di riconoscimento giuridico.
La Corte ha ritenuto che la tutela giuridica attualmente disponibile in Italia per coppie dello stesso sesso - come è stato dimostrato dalla situazione dei ricorrenti - non solo non è riuscita a proteggere i bisogni rilevanti per una coppia impegnata in una relazione stabile, ma non era anche sufficientemente affidabile. Dove la registrazione delle unioni dello stesso sesso presso le autorità locali è possibile - solo in una piccola percentuale di comuni in Italia – questo ha un valore puramente simbolico, in quanto non conferisce alcun diritto sulle coppie dello stesso sesso.
Concludendo che non vi è alcun interesse comunitario prevalente contro il quale bilanciare l'interesse dei ricorrenti ad avere le loro relazioni legalmente riconosciute, la Corte ha rilevato che l'Italia è venuta meno al suo obbligo di assicurare che i ricorrenti abbiano a disposizione un quadro giuridico specifico che preveda il riconoscimento e la protezione della loro unione. Per contro, la Corte avrebbe dovuto essere disposta a prendere atto delle mutate condizioni in Italia ed essere riluttanti ad applicare la convenzione in un modo che era pratico ed efficace.
Vi è di conseguenza stata violazione dell'articolo 8.
Alla luce di tale constatazione, la Corte non ha ritenuto necessario esaminare se vi fosse stata anche una violazione dell'articolo 14, in combinato disposto con l'articolo 8.
Altri articoli
Per quanto riguarda la denuncia ai sensi dell'articolo 12 (diritto al matrimonio) da solo e in combinato disposto con l'articolo 14, la Corte ha trovato, in casi precedenti, che l'articolo 12 non impone l'obbligo agli Stati di concedere ad una coppia dello stesso sesso, come la richiedente, l'accesso al matrimonio. Ha ritenuto che, nonostante la graduale evoluzione degli Stati in materia - oggi ci sono stati undici Stati membri del Consiglio d'Europa per aver riconosciuto il matrimonio omosessuale - i risultati raggiunti nei casi precedenti (le unioni civili n.d.r.), sono rimasti pertinenti.La Corte ha pertanto dichiarato la denuncia ai sensi dell'articolo 12, da solo e in combinato disposto con l'articolo 14, è irricevibile.


  

venerdì 4 luglio 2014

IDEE & RIFLESSIONI | l'Europa che noi vogliamo

In un epoca ormai orfana di persone in grado di elaborare un pensiero politico degno di questo nome è quantomai importante ricercare nel passato dei riferimenti certi e profondi che sappiano sempre indicare la strada giusta da percorrere.
Una di queste persone è sicuramente Bruno Salvadori, sincero amante dell'autonomismo prematuramente scomparso, di cui propongo di seguito uno scritto sull'Europa che definire "attuale" è alquanto riduttivo.

L’EUROPA CHE NOI VOGLIAMO

L'Europa unita, un sogno che ha infiammato intere generazioni di poeti, di filosofi, di storici, di uomini politici; un mito che avanza lentamente verso la sua realizzazione, sia in forma diretta e positiva, sia attraverso percorsi difficili e contraddittori.

Anche noi siamo europeisti, come tutti d'altronde. Ma appena ci si mette a discutere sulla forma, sulla funzione e sugli obiettivi di Questa Europa, emergono difficoltà e differenze. Ognuno ha le sue idee, anche noi abbiamo le nostre, condivise da molti altri popoli sparsi per l'Europa di oggi.

Noi non vogliamo un’Europa sottomessa economicamente, politicamente e militarmente ad una potenza mondiale, sia essa uno stato come lo abbiamo sempre conosciuto oppure l’establishment finanziario composto da banche e istituti finanziari mondiali, quindi, per questo esposta alle fantasie di qualche "'capo" che ne ignora addirittura la storia e la personalità.
Noi non vogliamo un’Europa degli Stati e delle banche come sono oggi costituiti, perché questo significherebbe perpetuare le divisioni attuali e distruggere il patrimonio culturale e storico di ogni comunità di base che forma la NOSTRA EUROPA.
  
La NOSTRA EUROPA

Allora, non può essere altro che un’Europa dei Popoli che tenga conto non di aride linee di demarcazione, non degli assurdi confini che separano popoli con la stessa cultura, la stessa lingua, la stessa storia, ma che consideri le diverse caratteristiche etniche dei suoi abitanti come base fondamentale della sua stessa esistenza. Ciò vuol dire che non vogliamo un massiccio inquadramento in schemi uguali per tutti, ma al contrario, una "UNITA’ NELLA DIVERSITÀ’" che permetta a tutti di lavorare e vivere nell'ambiente che egli ha contribuito a creare e che è stato il modello di vita e di sviluppo per una lunga serie di generazioni. Le drammatiche esperienze del triste periodo fascista, nazista e comunista, devono insegnarci che è impossibile sopprimere un popolo con la violenza e l'inganno o con le potentissime armi della burocrazia e della politica.

La lotta che moltissimi popoli devono affrontare ancora oggi per difendere la loro esistenza, deve sostenerci moralmente. Non siamo soli a resistere al continuo, sistematico tentativo di distruggere, poco a poco, il nostro patrimonio storico, al quale dobbiamo questa autonomia mutilata della  quale fruiamo, in qualche modo.
Queste considerazioni devono convincerci della necessità di esprimere e di proporre anche noi un concetto di Europa alla quale possiamo attribuire una qualunque denominazione (Europa dei Popoli, delle etnie, delle comunità, ecc ...) ma che deve essere una cosa concreta, sentita. Che possa trasmettersi dai popoli ai dirigenti e che non corrisponda soltanto a una convergenza d’interessi economici e politici gestiti da un vertice.

Per fare tutto ciò bisogna lasciar liberi o liberare i veri popoli. Cioè quei popoli che non possono essere divisi né dalle montagne né da altre linee di frontiera. Quelli che hanno la stessa origine. La stessa storia, la stessa lingua, le stesse tradizioni, quelli che oggi sono divisi a causa delle assurde guerre del passato e dei compromessi politici che ne furono la conseguenza.

Questa è la nostra idea di EUROPA... e questa sarà l'EUROPA di DOMANI se sapremo lottare esprimendo chiaramente la nostra idea unendoci, fin da ora, in un’azione comune a tutti quelli (e sono tantissimi!) che la pensano realmente come noi.

giovedì 12 settembre 2013

BENEDETTO XVI | discorso di Ratisbona

Sono passati sette anni da quando Papa Benedetto XVI pronunciava questo discorso a Ratisbona, rileggerlo con sempre maggiore attenzione è un esercizio che consiglio vivamente.

Buona lettura,
Matteo

INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA SCIENZA
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Aula Magna dell’Università di Ratisbona
Martedì, 12 settembre 2006
Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.
  
Eminenze, Magnificenze, Eccellenze,
Illustri Signori, gentili Signore!


È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.

Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue.[1] Fu poi presumibilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano.[2] Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre "Leggi" o tre "ordini di vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano.  Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.

Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È probabilmente una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava".[3] L'imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione, „σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…"[4]

L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio.[5] L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza.[6] In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.[7]
A questo puntosi apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo "Io sono", il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso.[8] Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento, una nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo.[9] Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio.

Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo „λογικη λατρεία“ – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).[10]

Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente  purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra.[11]

La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall'esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà.

La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento[12] e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.

Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.

Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.

 Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.

Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.

Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno".[13] L'occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'università.
  


[1] Dei complessivamente 26 colloqui (διάλεξις– Khoury traduce: controversia) del dialogo („Entretien“), Th. Khoury ha pubblicato la 7ma „controversia“ con delle note e un'ampia introduzione sull'origine del testo, sulla tradizione manoscritta e sulla struttura del dialogo, insieme con brevi riassunti delle „controversie“ non edite; al testo greco è unita una traduzione francese: Manuel II Paléologue, Entretiens avec un Musulman. 7e Controverse. Sources chrétiennes n. 115, Parigi 1966. Nel frattempo, Karl Förstel ha pubblicato nel Corpus Islamico-Christianum (Series Graeca. Redazione A. Th. Khoury – R. Glei) un'edizione commentata greco-tedesca del testo: Manuel II. Palaiologus, Dialoge mit einem Muslim, 3 volumi, Würzburg – Altenberge 1993 – 1996. Già nel 1966, E. Trapp aveva pubblicato il testo greco con una introduzione come vol. II dei „Wiener byzantinische Studien“. Citerò in seguito secondo Khoury.
[2] Sull'origine e sulla redazione del dialogo cfr Khoury pp. 22-29; ampi commenti a questo riguardo anche nelle edizioni di Förstel e Trapp. 
[3] Controversia VII 2c: Khoury, pp. 142-143; Förstel, vol. I, VII. Dialog 1.5, pp. 240-241. Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione  della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell'imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d'accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica. 
[4] Controversia VII 3b – c: Khoury, pp. 144-145; Förstel Bd. I, VII. Dialog 1.6  pp. 240-243.
[5] Solamente per questa affermazione ho citato il dialogo tra Manuele e il suo interlocutore persiano. È in quest'affermazione che emerge il tema delle mie successive riflessioni.  
[6]Cfr Khoury, op. cit.,  p. 144, nota 1.
[7]R. Arnaldez, Grammaire et théologie chez Ibn Hazm de Cordoue. Parigi 1956 p. 13; cfr Khoury p. 144. Il fatto che nella teologia del tardo Medioevo esistano posizioni paragonabili apparirà nell'ulteriore sviluppo del mio discorso.
[8] Per l'interpretazione ampiamente discussa dell'episodio del roveto ardente vorrei rimandare al mio libro "Einführung in das Christentum" (Monaco 1968), pp. 84-102. Penso che le mie affermazioni in quel libro, nonostante l'ulteriore sviluppo della discussione, restino tuttora valide.
[9]Cfr. A. Schenker, L’Écriture sainte subsiste en plusieurs formes canoniques simultanées, in: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Città del Vaticano 2001, p. 178-186.
[10] Su questo argomento mi sono espresso più dettagliatamente nel mio libro "Der Geist der Liturgie. Eine Einführung", Friburgo 2000, pp. 38-42.
[11] Della vasta letteratura sul tema della deellenizzazione vorrei menzionare innanzitutto: A Grillmeier, Hellenisierung – Judaisierung des Christentums als Deuteprinzipien der Geschichte des kirchlichen Dogmas, in: Id., Mit ihm und in ihm. Christologische Forschungen und Perspektiven. Freiburg 1975 pp. 423-488.
[12] Nuovamente pubblicata e commentata da Heino Sonnemanns: Joseph Ratzinger – Benedikt XVI., Der Gott des Glaubens und der Gott der Philosophen. Ein Beitrag zum Problem der theologia naturalis. Johannes-Verlag Leutesdorf, 2. ergänzte Auflage 2005.
[13] 90 c-d. Per questo testo cfr anche R. Guardini, Der Tod des Sokrates. Mainz-Paderborn 19875, pp. 218-221.