Serio e riservato interprete del più puro spirito lombardo, quella virtuosa combinazione di lavoro, concretezza e «cultura del fare» che è il fazzolettino verde all’occhiello del Nord, Roberto Maroni ha dato una silenziosa lezione di eleganza a chi voleva trascinarlo nella rissa.
Roberto Saviano dalla tv gli ha scagliato contro un sasso pesantissimo. Un’accusa che poi altre mani, con meno coraggio e maggior rabbia, gli hanno rilanciato contro, aggiungendo veleni e illazioni. Il ministro, con un composto gesto di stizza, da signore, si è pulito gli schizzi di fango: «Le cose che Saviano ha detto non corrispondono al vero. Ho chiesto di replicare, ma se mi sarà impedito ne prenderò atto. Per me è un’accusa insopportabile dire che la Lega interloquisce con la ’ndrangheta al Nord: nessuno di noi è indagato o coinvolto». Poi ha fatto notare, sommessamente, che lui e Saviano stanno dalla stessa parte, entrambi dicono le stesse cose, tutti e due combattono un unico nemico: perché avvantaggiare le mafie, sgambettandosi a vicenda? «Dividiamoci su tutto, picchiamoci metaforicamente parlando, ma non su questo», ha detto. Gli unici su cui Maroni è pronto a picchiare, e duro, sono i boss. Non i compagni di squadra.
Stasera quando s’incroceranno nei corridoi degli studi Rai di Milano dove, nelle stesse ore, il ministro sarà ospite di L’ultima parola e lo scrittore concentrato nelle prove di Vieni via con me, forse si stringeranno la mano. Perché no?
Con un aplomb difficilmente riscontrabile fra politici e intellettuali perennemente schierati in una zuffa all’ultimo sangue e all’ultima offesa, Maroni ha dato una risposta ferma ma pacata, certo delle proprie ragioni ma pronto a confrontarsi con l’altro, inflessibile nello smentire l’accusa che ha travolto il suo partito ma conciliante nella possibilità di chiarimento. Dichiarare, subito dopo il botta e risposta, a proposito dell’autore di Gomorra, «Lo conosco e lo stimo, deponiamo le armi», è un gesto di cui pochi sono capaci, in quest’Italia di lotta e di governo. Chapeau. Che dalle sue parti, a nord del profondo nord, si dice Brau fiö.
Se esiste, in questo momento, un politico che dovrebbe raccogliere un consenso bipartisan, è proprio Roberto Maroni. Non solo per la sua feroce opposizione alle mafie, ma anche per l’inflessibilità e la compostezza dei suoi atteggiamenti pubblici. Parla poco, dicendo ciò che serve. Si vede ancora meno, e solo dove c’è bisogno. Non accende gli animi, semmai li calma. Ciò che deve fare un ministro dell’Interno, appunto.
Niente slogan, niente piagnistei, niente propaganda. Freddo e pragmatico come sanno essere gli insubri, sa quando occorre scendere nell’arena e quando evitare le baruffe d’osteria. Dotato di un personalissimo understatement, il ministro mantiene un’invidiabile compostezza in mezzo alle troppo spesso barbariche orde padane. Si vede nelle piccole cose: fra i leghisti è l’unico che riesce a portare con una certa sobrietà persino il fazzolettino verde nel taschino, l’antitesi cromatica dell’eleganza.
E con eleganza e misura ha affrontato il «caso Saviano». Fortiter in re, suaviter in modo ha risposto allo scrittore, il quale - forse mal consigliato - ha detto cose giuste ma nel modo sbagliato, alludendo invece che spiegando, e soprattutto trasformando ruffianamente una trasmissione culturale in un’operazione politica, a senso unico. Ecco perché il ministro non poteva tacere.
Poi, da politico serio e da uomo corretto, chiarito quanto doveva chiarire, Maroni è tornato a lavorare. Ieri era già in terra di camorra, a Napoli, per incontrare i poliziotti che hanno arrestato il superlatitante Antonio Iovine: «Siamo qui per festeggiare... le polemiche non mi interessano, interessano a voi...», ha risposto ai giornalisti che chiedevano della querela a Saviano. Poi ha fatto due cose. Prima ha guardato indietro, al già fatto, ricordano le cifre impressionanti del bottino della sua guerra: 6.754 mafiosi arrestati, 410 latitanti catturati, 18 miliardi di euro confiscati alla criminalità organizzata... Poi ha guardato avanti, come suo solito, a quanto c’è ancora da fare: «Mancano ancora due superboss: Matteo Messina Denaro e Michele Zagaria, e il cerchio si sta stringendo». Concreto e ottimista, più che come padano, come lombardo.